GIOIELLO IDEALE

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2019/05/21

La mysteríouse histoire de la pivoine

La peonia occupa un posto di primo piano nella storia delle varie Dinastie cinesi ed è uno tra i fiori più importanti della simbologia cinese; rappresenta la bellezza e l’amore, l’affetto, ma anche la buona fortuna ed infine la primavera. L'antica cultura cinese scritta dai letterati, cioè la classe burocratica che legge il libro, tra i fiori mette in primo piano come importanza il pruno, seguito dalla orchidea. Questi due fiori hanno un significato speciale: solo il fiore di pruno è aperto di inverno, e i letterati credono che abbia uno spirito di resistenza ed è unico, invece le orchidee tendono a crescere in luoghi appartati e bui per cui i letterati credono che mantenga una personalità indipendente. Invece la Peonia è il fiore principalmente amato dalla classe Civica, il popolo. La Cina non ha un fiore nazionale in senso giuridico, ma nella sua lunga storia ci sono state molte dispute su quale dovesse essere, e alla fine ne hanno scelti sei: il pruno e la peonia sono i più importanti, poi a seguire il crisantemo, l’orchidea, il loto, l’osmanto profumato. Il crisantemo rappresenta il fiore d’oro è il simbolo dell’autunno ma anche di longevità e gaiezza. L’orchidea che cresce in luoghi appartati e bui rappresenta la perfezione per la sua simmetria assoluta tra petali e stelo. Il loto è simbolo di fertilità e purezza, l’umiltà, Buddha che è nato da un fiore di loto siede sul calice del loto, simbolo di rigenerazione e illuminazione. L’osmanto, albero che fiorisce di inverno e cresce attorno ai templi buddisti, profumatissimo come un arancio, è segno di accoglienza e prosperità. La comparsa della peonia in Cina può essere fatta risalire a più di 2000 anni fa, mentre la coltivazione delle piante inizia con le dinastie del Nord e del Sud tra il 220 e il 589 dc. e raggiunse il suo apice con la potentissima dinastia Tāng (618-907d.c.) sotto cui i confini della Cina si allargarono dall’Asia occidentale all’Estremo Oriente e una fitta rete commerciale scambiava merci preziosissime tra i paesi asiatici e quelli europei. La dinastia Tāng incentivò lo sviluppo culturale, economico e sociale formando una civiltà aperta e diversificata, e i discendenti si sentirono dei privilegiati. Importanti e celebrati artisti furono i poeti Li Bai, Du Fu, Bay Juyi, il calligrafo Yan Zhenqing, il pittore Wu Daozi, il musicista Li Guinian. Il livello di vita crebbe e il benessere era diffuso, in questo contesto prospero la Peonia è il fiore perfetto: quando il fiore di peonia sboccia è pieno di fiori, è brillante, è un simbolo di felicità e prosperità e di buon auspicio. La dinastia Tāng organizzò un “peony festival” che divenne il Carnevale della capitale Chang’an, oggi Xi’an. Questa città oggi è conosciuta in tutto il mondo per l’esercito di terracotta ritrovato nello scavo archeologico del mausoleo dell’imperatore Shihuangdi composto da più di 7000 figure di guerrieri e cavalli a grandezza naturale. Tutti gli anni, tra il 15 e il 25 aprile, siolge“ a Luoyang, una città vicina a Xi’an, il “festival delle peonie “ famoso e visitato sia dai turisti cinesi che dagli appassionati di fiori nel mondo. Le peonie sono in piena fioritura da metà aprile fino a metà maggio ed è un magnifico spettacolo per gli occhi . Praticamente nella cultura cinese il fiore della peonia ha i seguenti significati: 1) Simbolo della prosperità del paese perché sembra grazioso e magnifico. 2) Simbolo dell’aspettativa e il perseguimento di una vita ricca. Il fiore di peonia bello, magnifico, simbolo di ricchezza viene dipinto e associato ad altri fiori, uccelli e rocce. 3) Simbolo di ossa forti, non ha paura dei venti forti e delle feste luminose. La peonia non è delicata e fragile, è originariamente cresciuta tra le montagne e ancora oggi possono esserci peonie selvatiche che crescono ostinatamente sulle rocce o nell’altopiano di Loess che produce ancora splendidi fiori. Nell’immaginazione collettiva la peonia è anche l’incarnazione della bellezza, della purezza e dell’amore. Il paese è prospero, la famiglia è ricca e sicura e la vita è felice , la peonia è di buon auspicio. “Il padiglione delle peonie“ è il titolo del dramma cinese più conosciuto nel mondo occidentale scritto dal famosissimo poeta Tāng Xianzu (1567-1616) che è considerato lo ”Shakespeare cinese”. Questo dramma che è in assoluto l'opera più popolare scritta in Cina è considerato un capolavoro di poesia raffinatissima senza confronti, e tutte le compagnie di teatro Kūnqǔ la includono nel loro repertorio. Narra della storia d'amore fra Dù Lìniáng la giovane figlia di un notabile che mentre passeggia in un giardino di peonie si ferma a riposare e si addormenta. Nel sogno le appare Liǔ Mèngméi, un giovane bellissimo che non ha mai incontrato prima e del quale si innamora a prima vista. All’improvviso una pioggia di petali di peonia la sveglia, il sogno svanisce, ma lei, perdutamente innamorata del giovane apparsole in sogno, cercherà invano di incontrarlo poi sconfortata si lascerà morire di malinconia. Il padre disperato non ha inciso il suo nome nella tavola ancestrale quindi la sua anima non può riposare nel Regno dei Morti ed è rimandata sulla terra come fantasma. La ricerca del bellissimo giovane continua anche dopo la morte e lo ritrova nel giardino dove i due si erano incontrati in sogno. Liǔ Mèngméi la riconosce e decide di riportarla in vita, quindi si reca dal padre di lei per dargli la buona notizia, ma questo non gli crede e lo accusa di essere un impostore. Dopo una serie di vicissitudini, Liǔ Mèngméi si salverà dalle accuse grazie al perdono dell’imperatore e vivrà accanto alla amata Du Lìniáng. Nella pittura cinese la peonia è un soggetto principe, i pittori-calligrafi dipingono preziosissimi rotoli di carta di riso che si conservano nelle case e vengono mostrati solo a pochi intimi amici. Ogni dipinto per essere ben eseguito deve rispondere a quattro requisiti: prestare attenzione alla poesia, alla calligrafia, alla pittura e ai sigilli. Il disegno della peonia lo ritroviamo nella tessitura di raffinatissimi panni in seta, negli oggetti di arredo, nei mandala che venivano intagliati partendo da un fiore posizionato al centro del foglio e riprodotto all’infinito ripetendo gli stessi volumi allargandoli così come si allargano le onde che fa un sasso quando lo si getta in uno stagno. I mandala vengono utilizzati come pannelli per mobili e pareti. Meravigliose le scatole in lacca rossa e naturalmente i gioielli cesellati col motivo della peonia che venivano realizzati in oro purissimo come ornamento dell’abito e del corpo, le giade imperiali intagliate e le porcellane. Gli scambi commerciali fecero apprezzare la peonia anche nel mondo occidentale: Solimano il Magnifico(1494-1566) apprezzò le maioliche cinesi del periodo Ming quindi possiamo ammirare nella sua collezione II due splendidi piattini decorati col motivo della peonia, il primo associato al loto, dipinto in azzurro e verde, conservato al British Museum a Londra, il secondo decorato solo con peonie in blu conservato ad Istanbul al museo archeologico. Il meraviglioso dipinto di Jan Bruegel il Vecchio detto il Bruegel dei velluti (1568-1625) documenta la presenza della peonia in Europa dipingendola nel famosissimo quadro dei cinquantaquattro fiori, è una peonia rossa di grandi dimensioni, quasi spampanata, a fianco di una Fritillaire Impériale, pianta originaria della Persia e portata in Europa dai Turchi. Il quadro di Brueghel che nei suoi quadri dipingerà con il suo straordinario realismo più volte peonie di grandezza e colore diversi, rosso, bianco, rosa, certificandone assolutamente l’anteriorità nel mondo botanico occidentale già nel 1589. Il 16 maggio 1770 si celebrò il matrimonio a Versailles tra Maria Antonietta e il futuro re Luigi XVI, ma la festa fu interrotta da un devastante acquazzone che bagnò rendendoli inservibili i meravigliosi fuochi d’artificio che erano stati predisposti per illuminare il cielo notturno, gli invitati correvano cercando un riparo, le dame di corte vedevano devastate le raffinatissime parrucche e le deliziose scarpine, gli abiti di preziose sete inzuppati....un vero disastro. Sembra che gli unici a divertirsi fossero i due giovanissimi sposi, Luigi Augusto di Borbone, futuro Re Luigi XVI di Francia, e Maria Antonietta d'Asburgo-Lorena, quattordici anni lei e quindici lui, che a tutto pensavano ma non certamente a unirsi in matrimonio. Infatti passarono mesi e anni prima che il matrimonio si consumasse. Dopo essere salito al trono nel 1774, Luigi XVI donò il Palazzo detto il Petit Trianon e il parco circostante alla regina per i suoi svaghi personali dicendole: “Voi amate i fiori. Bene, voglio donarvi un bouquet: il Petit Trianon”. Luigi XV aveva fatto costruire il Trianon per la sua favorita Madame de Pompadour che fatalmente morì un anno prima della fine dei lavori, quindi fu abitato dalla nuova favorita del re: la spregiudicata Madame Du Barry. Maria Antonietta accettò con gioia il regalo decidendo di rimodernare completamente il Piccolo Trianon trasformandolo in un borgo dove l’etichetta e le formalità di Versailles fossero completamente bandite. La regina infatti detestava qualsiasi tipo d'impegno e formalità, e il Petit Trianon divenne il luogo perfetto per le sue aspirazioni di vita all'insegna della spensieratezza tanto che una volta ultimati i lavori di ristrutturazione del Palazzo e del giardino vi andò ad abitare stabilmente. Questa cosa provocò scandalo e dissenso sia da parte del popolo che la preferiva Regina nella reggia di Versailles, che dalla corte intera, che si trovava quasi senza lavoro, che dai nobili che perdevano le occasione di inviti a Corte per feste e pettegolezzi. Il Palazzo e il giardino furono completamente ristrutturati e minuziosamente progettati da Maria Antonietta e rivisti in chiave bucolica e illuminista facendo realizzare un moderno giardino “anglo-cinese” dai migliori architetti e botanici del tempo, che riprodussero in modo artificioso la massima naturalezza del paesaggio. In questo giardino "anglo-cinese" in pochi chilometri quadrati: piante cinesi, francesi, indiane, africane, tulipani d'Olanda, magnolie del Sud, un laghetto e un ruscello, una grotta d’amore ,un romantico Belvedere, una isola artificiale, animali, pecore coi pastori, mucche coi contadini. Anche le case dei contadini che danno vita ad un piccolo borgo furono costruite come se fossero antiche disegnandone le crepe sui muri e i camini affumicati. Il Giardino deve sembrare naturale e casuale, ma in realtà prima di procedere alla sua realizzazione furono fatti innumerevoli disegni a colori, e venti modelli di gesso per prova . Il giardino anglo cinese segna la fine del giardino all’italiana e alla francese codificato in magnifici schemi geometrici intervallati da fontane e giochi d’acqua, diventando un luogo di piacere dove le sorprese, l’armonia, gli opposti, il selvaggio, il malinconico si avvicendavano. La Regina Maria Antonietta chiese al suo giardiniere Antoine Richard di creare un parterre di fiori colorati e profumati, di bulbi e rizomi sopratutto anemoni, giacinti e iris per esercitare sua figlia, principessa reale, al giardinaggio. Con l’avvento della Repubblica si documenta l’enorme investimento finanziario per realizzare il Petit Trianon e il suo giardino e nel 1795 le piante da frutto furono censite nell’inventario descrittivo ”4 et 5 Germinal An 3 de la Republique française Une et indivisible(25-26 mars 1795) da Jean-Pierre Peradon et Antoine Richard. Nel settembre del 2018 una studiosa di Storia del profumo e delle piante officinali ed insegnante alla scuola dei profumi a Versailles, Élisabeth de Feydeau ha pubblicato il volume : ”L’Herbier de Marie-Antoniette “ sous la direction d’Alain Baraton . In questo elegantissimo volume pubblicato da Flammarion vengono presentate tutte le piante da fiori presenti nel Giardino della Regina illustrate con bellissime riproduzioni a stampe a colori. La Peonia non c’è come non è presente nell’indice delle specie citate. Perché? Come mai Maria Antonietta non fece piantare nel suo giardino anglo cinese il tubero di Peonia? Perchè manca il fiore prediletto dai cinesi che era già ben conosciuto ed apprezzato in Turchia da Solimano il Magnifico ed poi in Europa come Jan Bruegel aveva documentato e certificato dipingendolo nei suoi quadri? Questo è un mistero ....la Regina Maria Antonietta fu appassionata collezionista di fiori artificiali che dal 1782 iniziò ad acquistare dalla modista Madame Rose Bertin che aveva il negozio a Parigi “il Gran Mogul“ in rue Saint Honore. La Regina, che riceveva la modista due volte a settimana, acquistò centinaia di questi fiori artificiali realizzarti con stoffe e sete pregiatissime che poi utilizzava per decorare gli abiti, adornare cappelli e parrucche. Dopo un secolo, in Italia, troviamo “la donna più bella del mondo“ Lina Cavalieri che sugli abiti faceva cucire i gioielli ricevuti in dono dai suoi ammiratori alternandoli a veri e falsi fiori, tra cui le peonie. Famosissime sono le foto che la ritraggono di trequarti avvitata in abiti di velluto nero decorati con fiori freschi o ricamati tra cui le peonie, le rose, i lilium. La Cavalieri è un simbolo della bellezza femminile celebrata dallo straordinario fermento artistico e creativo che l’art nouveau parigina aveva inaugurato e che il gioielliere Rene Lalique coi suoi meravigliosi gioielli in oro dipinti con smalti policromi, superando il limite della bidimensionalità, creando dei magnifici tromple-oeil caratterizzò. La fama della Cavalieri fu tale e tanta ed ancor oggi si ricorda e la rivediamo dipinta nelle opere del famoso designer milanese Piero Fornasetti: la sua musa.












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© Imelde Corelli Grappadelli, May 2019

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2019/03/11

ARCHEOPATAFISICA
Catalogo a cura di Simonetta M. Bondoni Busi, 1991
Nell'intricato labirinto delle teorie sull'arte che hanno tormentato il XX secolo, ciò che sembra ancora non riuscire a sbloccarsi è il pregiudizio relativo alle arti cosiddette decorative, considerate tuttora "minori". Come se la "decorazione"-chiamata è vero, col nome più alto di estetica- non fosse poi il fine di qualsiasi opera d'arte; è come se qualunque tipo di opera d'arte non fosse costretto a fare i conti con l'abilità manuale, con l'impasto dei colori, con la fusione, con la specificità degli attrezzi e via discorrendo. La maggior parte delle persone sarà tuttavia disposta ad ammettere che un dipinto (un quadro ad olio per esempio), non è ipso facto un'opera d'arte, anche se più difficile sarà il passo successivo: e cioè il riconoscere che un oggetto (un gioiello per esempio) possa al contrario esserlo.Ovvero la qualifica di artistico verrà, nel secondo caso, tendenzialmente sfumata, circostanziata, delimitata da categorie in qualche modo riduttive, che sembrano avere parentela con la riserva morale Dovrebbe invece in fondo bastare la semplice riflessione che se un gioiello dipinto all'interno di un quadro (e ne possediamo infiniti esempi) può qualificarsi come opera d'arte, non si vede perché non possa il gioiello medesimo, nella sua tridimensionalità, aspirare al titolo puro e semplice di arte. Mi vengono alla mente, in proposito, i formidabili tappeti di Lorenzo Lotto, centro focale di molti suoi quadri, raffigurati con sublime maestria ma anche con assoluta precisione. Dubito che solo pochi, trovandosi oggi sotto gli occhi quei medesimi tappeti, avrebbero l'accortezza di guardarli con gli occhi con cui li guardava appunto il Lotto, e cioè come vere e proprie opere d'arte. La distinzione tra arti maggiori e minori è evidentemente tarda e di stampo positivistico (è chiaro a tutti che Cellini considerava se stesso ed era considerato dagli altri come un grande artista) e tuttavia - come si diceva- è dura a morire; anche se da molte parti, e nemmeno da oggi, ci si sforza di dichiararla obsoleta, inadeguata, e si reclama la necessità di chiuderla infine in uno dei cassetti della storia. I gioielli appartengono alla stirpe di quelli che reclamano giustizia (se non vendetta) e più di altre categorie, in verità faticano ad ottenerla. Pesa forse su di essi il pregiudizio che grava in generale su tutto ciò che viene indossato invece di venire appeso al muro o installato su di un piedestallo.Vengono cioè relegati nel campo della"moda", come se il fenomeno "moda" non infestasse ed inquinasse tutti gli ambiti estetici senza distinzione; e lo sanno bene tutti gli "addetti ai lavori " (critici e artisti), sia gli onesti che i ciarlatani. Il gioiello è inoltre penalizzato, paradossalmente, proprio dal fatto di essere realizzato con materiali altamente pregiati - oro, argento e pietre preziose - elemento che porta alla facile confusione tra bene-rifugio e bene artistico. L'impressionante produzione contemporanea, in gran parte meccanica, di "gioielli in serie" non viene certo in auto a chi invece veda la straordinaria potenzialità della oreficeria e decida di esprimersi proprio con questo mezzo artistico.Non è infatti un caso che alcuni artisti, specialmente d'oltralpe, abbiano recentemente proposto gioielli creati con materiali alternativi e poveri (carta, legno, tessuti) spesso mescolati con quelli tradizionali e pregiati. Benché nulla si opponga in linea di principio a questa sperimentazione (che tocca del resto l'intero mondo dell'arte e i cui risultati vanno valutati -come sempre -caso per caso) essa testimonia forse anche del malessere di un'arte che deve fare letteralmente i conti con il valore di oro e brillanti, cioè con quanto di più monetabile sia dato pensare. Chi, dunque, come Imelde Corelli Grappadelli , decida di esprimersi creando gioielli con l'uso delle tecniche e materiali specifici dell'arte orafa, sa di non doversi trovare di fronte a un compito facile. E tuttavia basta esaminare da vicino e studiare uno solo di questi monili come si fa con qualsiasi opera d'arte, per rendersi conto sia della qualità del lavoro sia dello straordinario sforzo di progettazione che sottende ciascuno di essi. A chiunque guardi con attenzione i gioielli di Imelde risulta perfettamente chiaro che ogni linea, ogni proporzione, ogni spessore ed ogni voluta rispondono ad una esigenza interna all'opera stessa, lo stesso vale per la scelta delle pietre in cui forma e colore dichiarano una ben precisa disposizione d'animo oltre che una insostituibile necessità formale. Pur utilizzando con perfetta maestria tutte le tecniche dell'arte orafa e pur conoscendone ogni segreto (o forse proprio per questo) l'artista è in grado di creare lavori le cui vibrazioni vanno ben al di là del puro virtuosismo. Anzi talora all'opera viene lasciata qualche apparente imperfezione quasi a firma e garanzia di autenticità,perché all'imitatore e al falsario (croce di ogni artista) mai riuscirà di copiarle. Al contrario si sforzerà di eliminarle, incapace di comprendere l'intima necessità di questi "nei di Venere ". Perché di necessità -lo ripetiamo- si tratta; la perla "mancante" nel collier "serve" a rivelare il filo d'oro che c'è sotto,l'imperfetta specularità di due orecchini coglie la leggera asimmetria di un volto; la diversa misura di due perle racconta la storia di due pianeti….e così via, in un continuo intrecciarsi di scoperte in cui ognuno può esercitare il proprio occhio e la propria intuitività. E' quindi evidente che questi monili non sono intercambiabili, e la scelta di ognuno di essi non potrà avvenire altro che su un piano di emozione empatica e simpatetica. Solo passando attraverso la vibrazione artistica ciascuno di noi potrà scegliersi (o essere scelto da) questi orecchini che si parlano oppure che danzano da un capo all'altro della testa, queste vorticose spille sovradimensionate, questi bracciali che si avvinghiano con elastiche ampiezze. Non è dunque un caso che per questi gioielli l'artista progetti anche espositori speciali: Imelde Corelli Grappadelli (e anche il nome - come lei stessa sottolinea - si attorciglia su se stesso) costruisce allora personaggi di patafisica memoria. Arcaici e domestici, ieratici e schizofrenici insieme, questi idoli di creta indossano con quieta ma conturbante disinvoltura ori e pietre, perle e coralli. Queste sculture che nascono da cordami di creta ritorta (il cui antropoformismo è quello visionario del Père ubu) spingono ancora più in profondità i meccanismi di identificazione e di riflessione già messi in moto dai monili. Non v'è dubbio che siamo in presenza di un lavoro denso di connotati archetipici, ricco cioè di elementi in grado di parlare - ad un livello più o meno consapevole- alla nostra coscienza. E - procedendo nella analisi - troveremo, senza troppa difficoltà, che gli elementi archetipici hanno un'espressione così storicamente assidua da essere archeologici. In ogni monile la modernità dinamica del presente trova radici in un passato carico di storia e di significati. Ogni contorsione del metallo prezioso è alimentata da secoli di sedimentato splendore. Ciò che è più nuovo è più archeologico. Questo è l'assioma di epigrafica certezza, del lavoro di Imelde. Assioma tanto più vero quanto più sostanziato da una storia personale di mesi passati nei musei a studiare i gioielli di scavo(Imelde si laurea con una tesi di storia antica con una tesi su "Elementi della tecnologia dell'oro nella antichità"), e tanto più vero quanto più sembra dare risposta all'ansia di novità che prelude al millennio a venire. Nel tifone inarrestabile della iperproduttività industriale e del consumo sempre più veloce, si definisce un centro immobile in cui regna la calma. Il centro del vortice è l'antico, che pesca nelle viscere della terra: l'archeologia è il nuovo. Tutto ciò che riesce a divenire archeologico è nuovo: l'oro, e i monili, e la patafisica e noi stessi. Provvisti ciascuno di un titolo insieme lapidario ed ironico (nella migliore tradizione dell'arte contemporanea), firmati e punzonati, i gioielli di Imelde si avventurano nel mondo con spavalda timidezza; e non sembri contraddittorio, perché se una certa spavalderia si trova in chi è convinto e orgoglioso della propria unicità , nondimeno la timidezza è tipica di chi si propone agli altri come un omaggio e come una poesia: senz'altra arma della propria bellezza. Questi monili si offrono al fruitore in un certo senso come appena usciti da un fortunata e non profanato scavo: nuovissimi, brillanti e già ricchi di tutto il pathos e di tutto il fascino della storia. L'archeologia ci viene in aiuto ancora una volta proponendoci di guardare questi lavori con gli stessi occhi con cui si guardano i monili che si presentano a noi già carichi di secoli e di millenni: fortificati dalla magia incantatoria dell'antichità essi appaiono senza ombre nella loro essenza di opere d'arte. Nessuno dubiterà - nell'osservare i gioielli dell'antico Egitto, i meravigliosi monili della Magna Grecia o i reperti etruschi- di trovarsi di fronte a prodotti artistici. Nell'indicarci l'archeologia, dunque, Imelde ci indica anche un strumento, una sorta di magico cannocchiale con cui leggere il suo lavoro, ed anche una categoria estetica che restituisca all'arte del gioiello la sua aura. Lo stretto vincolo che lega Imelde e l'archeologia viene sottolineato e rinsaldato dalla ultima "scoperta archeopatafisica" presentata in una serie di monili battezzati con il nome di Abraxas, la potente divinità gnostica, l'arconte dei 365 Cieli. In questi gioielli, l'oro riporta a nuova vita antiche pietre magiche incise, i potenti sigilli sasanidi carichi di simboli e di quindici secoli di storia. Questi sigilli di forte impatto visivo erano anche potenti amuleti, e la loro potenzialità magica non chiede che di venire riattivata; intrappolati in spirali di oro, inseriti in fili ritorti, racchiusi tra lamine auree, essi tornano a proporsi nella loro qualità di pietre, assolutamente personali, monili e amuleti, unici e irripetibili. La foresta dei ferodi-serpentiformi sculture in creta, cugini dei patafisici - nella quale gli Abraxas sono presentati, vuole sottolineare nella distribuzione dello spazio e nello spazio i caratteri "di dilatazione, di ascesa, di anelito…e di quant'altro. 

2019/03/03

Lady Gaga e il Tiffany Fancy Diamond

Qualche giorno è già trascorso dalla cerimonia di consegna degli Oscar, ma sono ancora abbagliata dallo sfavillio del collier di diamanti indossato da una emozionantissima Lady Gaga che  solleva la statuetta Academy Award for Best Song vinta come autrice della colonna sonora del film “A star is born”. La cantante fasciata  in super nero e strepitoso abito-installazione di Alexander McQueen,  lunghi guanti da diva, che schiudevano, come cornice di un quadro, il mezzobusto anticamera di un collo strepitosamente  adornato, viso stupendo, occhi scintillanti , capelli decolorati raccolti a banana, voce da brividio come la collana indossata: il Tiffany Yellow Diamond.
Questa collana girocollo mi ha fatto sognare: di platino e 120 carati di diamanti bianchi declinati in un geometrico mistilineo dove 20  grandi diamanti taglio Lucida sono alternati a 58 diamanti taglio brillante  più piccoli e sospeso un ciondolo di diamante famoso e favoloso di 128,54 carati, di uno straordinario colore Fancy Yellow, il mio preferito. Questa collana fu realizzata nei laboratori Tiffany nel 2012 per celebrare il centosettantacinquesimo  anniversario dalla fondazione, e in questa occasione è stata prestata alla famosissima cantante per calcare il red-carpet.


La storia del Tiffany Yellow Diamond  risale al 1878 quando Charles Lewis Tiffany acquistò il diamante grezzo del peso di 287 carati di un magnifico colore giallo  fancy. Questa grande pietra fu successivamente tagliata per esaltarne la bellezza dopo un anno di studio dal tagliatore di fiducia di Tiffany, in una pietra taglio cuscino con ben 24 faccette in più del taglio tradizionale, per un totale di 82. Questo taglio modificato fa risaltare quel “lampo “ che si percepisce nel fondo del padiglione che tradizionalmente si chiama “fuoco”. Il colore giallo saturo ed uniforme del diamante è una colorazione naturale che denota la presenza di piccolissime tracce di boro nella composizione chimica del carbonio puro che lo ha generato 13 milioni di anni fa. Interessante e sfavillante  il taglio utilizzato per i 20 grandi diamanti bianchi della collana,  il taglio Lucida, che è un brevetto del 1999 delle taglierie Tiffany: è un taglio cuscino quasi quadrato con faccette allineate che migliorano la luminosità  della pietra. Questa collana è da red carpet, non ha prezzo... si stima in trenta milioni di dollari solo il ciondolo.... Non è la prima volta che questa pietra viene fotografata al collo di celebrità , infatti Miss AudreyHepburn la indossò  per  le immagini pubblicitarie del film Breakfast at Tiffany's nel 1961 . La collana in cui era incastonata era un girocollo di ispirazione naturalistica, vagamente floreale, molto bella che forse preferisco a questa ultima versione troppo minimalista.
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© Imelde Corelli Grappadelli, March 2019
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2019/01/30

Palazzo Pallavicini a Bologna

Fuori Porta Stiera in via s.Felice al numero 24, si trova Palazzo Pallavicini.
I primi proprietari di questo magnifico edificio furono i Da Sala, forse di origine Franca, che a metà del XII secolo si trasferirono a Bologna da Sala Bolognese partecipando alla vita politica della città ricoprendo alcune magistrature comunali, furono notai, mercanti, condottieri, dottori dello studio e col partito guelfo si schierarono a favore della Chiesa di Roma.
Gli ultimi da Sala che vissero qui furono Bornio(1400-1469) insegnante di diritto all’Alma Mater, rigido moralista e sostenitore del dominio temporale del Papa su Bologna e suo figlio Giovanni Gaspare giurista che vendette il Palazzo di famiglia nel 1504 per pagare la dote alla figlia Eleonora .
Giovanni Gaspare da Sala,(1440-1511) uno dei cinque figli di Bornio ed Elena Poeti, era nato nel 1440, poiché era dotato di grande talento fu avviato dal padre, umanista e giurista, allo studio del diritto civile e canonico : i suoi maestri furono Alessandro da Imola ed Andrea Barbazza. Il 18 febbraio 1460 si laureò Dottore in diritto civile e canonico in un momento politicamente delicato per la sua famiglia, infatti il padre Bornio, nel 1459, aveva denunciato il malgoverno dei Bentivoglio e la loro tirannia sulla città di Bologna, ma  contrariamente alle sue aspettative, sperava che il governo della città fosse tolto ai Bentivoglio per riportare in auge le famiglie vicine alla Chiesa come la sua, il papa Pio II non prese posizione e il Da Sala trovandosi in grave difficoltà dovette allontanarsi da Bologna.
Il giovane figlio, che si era laureato poco dopo, aveva comunque ricevuto incarichi apparentemente prestigiosi dalla Università ma le sue lezioni erano disertate perché gli orari coincidevano con quelle dei suoi maestri oppure erano fissate in giorni festivi. Poiché aveva pochi  studenti lo stipendio era assai modesto, 200 lire di bolognini, contro le 1200 corrisposte al giurista Andrea Barbazza .
A questo si aggiunse nel 1463 il gravoso incarico ricevuto dalla madre Elena Poeti di amministrare la sua dote, provvedendo alla gestione familiare e alla tutela del fratello minore. Tutta l’amministrazione fu quotidianamente documentata nei due libri “il Giornale” e il “Memoriale” dal Da Sala . Questi sono libri di ricordanze, scritti in lingua latina, che nel tempo hanno dato lustro e fama a Giovanni Gaspare poiché documenti e fonti storiche  per lo studio degli usi e consuetudini della vita bolognese, dalla gestione dei beni di famiglia alle operazioni  finanziarie, dal recupero di  posizioni debitorie all’acquisto di libri.
Il 15 febbraio 1470, sposò Elena figlia di Gabione, della famiglia senatoria  Gozzadini, che oltre alla dote portò nuovo lustro alla famiglia da Sala. Purtroppo questo matrimonio fu di breve durata perché  dopo tre anni Elena morì di parto.
Nel 1475, incoraggiato da Ginevra e Giovanni Bentivoglio, sposò Maddalena di Angelo da Serpe, dalla quale ebbe cinque figli, ma anche la seconda moglie morì di peste il 20 ottobre 1486. Infine nel 1494  sposò Margherita Pepoli, figlia di Obizzo e nipote del giurista Giovanni, dalla quale non ebbe figli.
Nel 1504 per pagare la dote alla figlia Eleonora avuta dal secondo matrimonio, vendette il Palazzo Sala e andò a vivere in affitto. Le difficoltà finanziare, benché avesse proprietà famigliari di qualche pregio, non lo abbandonarono mai e sempre la delusione di una carriera accademica mai decollata lo accompagnarono alla morte avvenuta il 24 marzo 1511. 
Il Palazzo passò in proprietà alla famiglia Villa, quindi alla famiglia Volta, poi alla famiglia Marsili, e nel 1680 alla famiglia Isolani. Gian Marco Isolani lo modificò nel rispetto “dei modi dell’architettura Senatoria”: un sostanziale sventramento del vecchio Palazzo per ricavare gli spazi necessari alla tipologia del Palazzo senatorio: la scalinata monumentale ed  il salone amplissimo e altissimo con soffitto a lanterna. Questi lavori furono realizzati dall’architetto Paolo Canali (1618-1680). A seguire nel 1681 gli Isolani vendettero ai fratelli Girolamo e Carl’Antonio Alamandini che a loro volta lo lasciarono, con la villa di Croce del Biacco, in eredità alla sorella Veronica, moglie di Paolo Bolognetti. Il senatore Alamandini nel 1690 aveva incaricato il pittore Giovanni Antonio Burrini di affrescare con lo stile monumentale tipico dell’epoca il salone senatorio con le Storie di Fetonte e le Parti del mondo. Il Burrini (1657-1729) pittore bolognese, allievo del Canuti, molto apprezzato e colto, che conosceva la grande pittura veneta avendo lavorato a Venezia, è tra i pittori bolognesi più dotati e originali della generazione attiva nel periodo 1680-1720.  È detto“il nostro Cortona o il nostro Giordani", il sofisticato impianto pittorico, lo "spirito caldo e franco" e il vigore impetuoso del suo stile  spiccano nell'ambito dell'erudita cultura artistica bolognese.  Rappresenta l’avanguardia di quella che è stata definita la corrente neoveneziana della pittura tardo-secentesca bolognese. Dipinse a Firenze, a Torino e a Zola Predosa, e fu tra i fondatori della Accademia Clementina di Bologna (1709), di cui fu il settimo principe (1723-24).
Nel 1729 i conti Bolognetti ristrutturarono “di nuova Fabrica” (Taruffi, 1738) affidando l’incarico del cantiere all’architetto Luigi Casoli . 
Nel 1765 il maresciallo Gian Luca Pallavicini (1697- 1773) si trasferì a Bologna da Milano, nato in una nobile e famosa famiglia  più volte assurta alla carica dogale nella Repubblica di Genova, ebbe una brillante carriera militare e le sue doti diplomatiche e politiche furono molto apprezzate e premiate dagli Asburgo: consigliere di stato dell’imperatrice d’Austria Maria Teresa e viceré di Milano. Il governo della città di Milano mise in luce le sue rare doti diplomatiche, sempre alla ricerca del consenso popolare, l’episodio del rinoceronte  esposto alla curiosità di tutti i cittadini milanesi ne é memoria. Quando lasciò Milano e decise di trasferirsi a Bologna  trovò in Palazzo Bolognetti il luogo ideale per rivivere i fasti milanesi di Palazzo Reale perché  il proprietario, il senatore Ferdinando Bolognetti, si era trasferito a Roma e lo aveva messo in affitto. Il palazzo così entrò nella disponibilità del Pallavicini che iniziò a ricevere selezionati ospiti e  diplomatici internazionali invitandoli a sontuose feste, banchetti o esclusive serate musicali, protetto da guardie austriache e servitù tedesca.  Memorabile fu la esibizione di Wolfgang Amadeus Mozart nel salone dipinto dal Burrini illuminato a festa la sera del 26 marzo 1770. Il talento del giovane musicista quattordicenne incantò il pubblico: erano state invitate settanta signore scelte tra l’aristocrazia bolognese e internazionale, i principi di Holstein e di Saxon Gotha, e i massimi esponenti dell’autorità religiosa: l’Arcivescovo Vincenzo Malvezzi, il cardinal legato Antonio Colonna Branciforte e monsignor Ignazio Boncompagni Ludovisi oltre ai musicisti Misliveček, Farinelli, Barney, padre Martini. Il concerto fu un successo strepitoso e ne rimane memoria nella lettera scritta il 28 marzo da Gian Luca Pallavicini al ministro Firmian “...il giovane professore mi diede prove così ammirabili del suo sapere che alla sua tenera età sarebbe incredibile a chi non lo vede.” In altre occasioni furono ospitati personaggi di passaggio da Bologna come Maria Carolina d’Ausburgo in viaggio per Napoli dove avrebbe sposato Ferdinando II di Borbone, e l’imperatore d’Austria Giuseppe II. In seguito il Palazzo fu acquistato da  Gian Luca Pallavicini e donato al  figlio Giuseppe (1756/1818) che incaricò nel 1788 l’architetto Alessandro Amadesi di metter mano alla facciata dell’edificio per trasformarla come la vediamo oggi: sul fronte di via San Felice è possibile individuare tre distinti corpi di fabbrica inglobati nell’attuale facciata ornata da un grande balcone decorato con foglie di acanto in ferro battuto e il bellissimo cornicione in cotto, mirabilmente conservato, del primitivo Palazzo Da Sala  diventato ora “corte Pallavicini in Strada San Felice”.
Giuseppe Pallavicini fu iniziato agli studi umanistici dal padre. Il suo maestro fu Carlo Bianconi (1732-1802) letterato, collezionista di opere d’arte, artista, architetto, incisore e ornatista che a sua volta era stato allievo dello zio Giovanni Battista, rinomato teologo e professore di greco, del pittore scenografo Ercole Graziani, dello scultore anatomico Ercole Lelli, famoso per le sculture in legno e in cera. 
Carlo Bianconi con gli amici incisori Mauro Tesi e Francesco Algarotti sentì la necessità di un rinnovamento negli stilemi artistici ormai obsoleti del tardo barocco, e diede vita ad una corrente artistica bolognese nuova  recuperando dall’antico le forme eleganti classiche della grande tradizione greca e romana da contrapporre al barocchetto dilagante. Sta per nascere il Neoclassicismo, corrente artistica alimentata dagli studi dello storico prussiano Johann Joachim Winchelmann (Altmark, il 9 dicembre 1717, morto a Trieste l'8 giugno 1768, assassinato) inventore del concetto di Storia dell’Arte come valore di facoltà spirituale e di studio di un fenomeno sociale, analogo alla poesia. La definizione di Storia dell’Arte fu una delle maggiori conquiste intellettuali del sec. XVIII, che permise  d'identificare la storia dei monumenti con la storia stessa della civiltà. La sfaccettata preparazione culturale di Bianconi fece si che ottenesse straordinari riconoscimenti accademici a Bologna, Roma e Milano dove per 23 anni fu rettore dell'Accademia di Belle Arti di Brera, da cui venne licenziato per ragioni politiche, non era gradito ai francesi, sostituito da Giuseppe Bossi, dopo poco nel 1802 morì .
Giuseppe Pallavicini forte di questa straordinaria preparazione accademica e umanistica appresa dal suo maestro Bianconi  si sente pronto e decide di volere essere un  protagonista in questo cambiamento culturale che sta per travolgere tutta Europa  restaurando il Palazzo di famiglia con i nuovi stilemi dell’arte neoclassica . Il Palazzo inizia la sua nuova trasformazione come oggi possiamo ammirare nelle sale e camerini del piano nobile. I documenti, le lettere di incarico, le carte e le ricevute di pagamento hanno permesso di identificare con precisione gli interventi architettonici e decorativi voluti da Giuseppe Pallavicini, dando un volto agli artisti che collaborarono a rinnovare l’edificio.Sta per nascere un modernissimo cantiere dove i migliori artisti bolognesi della epoca sono invitati a dare il meglio della loro esperienza per creare un magnifico esempio di Palazzo Neoclassico.
L’incarico viene affidato all’architetto Raimondo  Compagnini (1714 -1783 ) architetto teatrale e civile, quadraturista e scenografo presso l'Accademia Clementina, allievo di Ferdinando Galli Bibiena e di Marc'Antonio Chiarini. Nel 1776 il Compagnini diede inizio ai lavori di ampliamento del palazzo consistenti in "appartamenti nuovi fabbricati di pianta..." nella parte sinistra dell'edificio e "nuove officine con annessi di grandiosa scuderia e rimesse ed altro nel Pradello" .
Contemporaneamente il giovane Giuseppe decide di sposare Carlotta Fibbia discendente di una importante famiglia toscana: nel quindicesimo secolo il principe Francesco Fibbia Castracani fuggito da Lucca per motivi politici, riparò a Bologna ospite di Giovanni Bentivoglio e di cui successivamente sposò la figlia Francesca, abitò in via Galliera dove oggi è Palazzo Felicini. Francesco Fibbia legò il suo nome al gioco bolognese di carte chiamato  “tarocchino bolognese”definendone le regole e disegnandone le carte che  firmò, infatti sia la Regina di bastoni che la Regina di denari hanno una Fibbia d’oro.
I lavori a Palazzo Pallavicini fervono: lo scultore Giacomo Rossi dovrà
realizzare magnifiche decorazioni in stucco per le grandi sale “il Camerone” e “i Convitti” dell’appartamento di rappresentanza (1789-92). Questi ornati costituiscono, insieme a quelli delle residenze Gnudi, Aldrovandi e Albergati a Zola Predosa, le principali realizzazioni di Rossi secondo le regole e il lessico di Carlo Bianconi, senza dimenticare la costante collaborazione con l’architetto Angelo Venturoli(1749-1821).  Nel 1779 Giacomo Rossi sposò Teresa Mazzoni, attrice di teatro, dalla quale ebbe due figli: Federico (1783-1871)che divenne maestro d’ingegneria, e Adelaide (1790-1809) che morì diciannovenne di febbre. Il  dolore per la perdita della adorata figlia sfociò in un attacco apoplettico che lo minò nel fisico e determinò la sua fine come artista. Il talento di Rossi oggi lo ammiriamo nelle gradevolissime, enormi e complesse decorazioni a stucco “alla greca” distese sulle pareti del Palazzo e che nella Sala da Convito raggiunge esiti sorprendenti, per i quali risultano inconfondibili(1789). Gli stucchi di Giacomo Rossi sono inseriti nelle quadrature disegnate e dipinte da David Zanotti (Bologna,1733-1808) .
L’incarico di affrescare iI soffitto va al pittore Filippo Pedrini (1763-1856) e il tema deve rimandare alle origini mercantili della famiglia Pallavicini. Gli affreschi sono ambientati nei paesaggi di Vincenzo Martinelli(1737-1807).Questo pittore rimasto orfano di padre ad undici anni, iniziò a lavorare col paesaggista bolognese C. Lodi (1701-1765) che è considerato indiscusso caposcuola del paesaggio bolognese e aggregato all'Accademia Clementina già dal 1747. Costui privo di prole lo accolse come un figlio e gli lasciò in eredità la bottega. Le “stanze paese» o «boscarecce» del Martinelli sono famose e suggestive e in palazzo Pallavicini lavorò al  soffitto con l’allegoria del Commercio di Pedrini (1793) e a due soprapporte (1795).
Le ghirlande fiorite dipinte lungo le pareti della sala dei “Conviti” al modo della reggia estiva dell’Oranienbaum di Caterina di Russia sono di Serafino Barozzi . I primi anni della sua vita li trascorse col fratello in Russia dove fino al 1764 lavorò al Palazzo d'inverno di Pietroburgo, purtroppo distrutto da un incendio nel 1837, e al padiglione di Katal'naja Gorka nel parco di Oranienbaum. Nel 1770 tornò Bologna e nello stesso anno venne nominato accademico clementino. La sua pittura ad affresco e la sua esuberanza decorativa è inconfondibile. Straordinari gli effetti illusionistici accuratamente studiati, iperrealistici festoni e ghirlande di magnifici fiori e frutta che si inanellano su colonne e reperti archeologici. Barozzi rappresenta l’ultima generazione dei quadraturisti bolognesi iniziata più di un secolo prima da Girolamo Curti detto il Dentone (1575 -1632) e portata alle estreme conseguenze dai Galli Bibiena, famiglia di artisti attivi anche in ambito europeo tra il XVII e il XVIII secolo.
Al pittore bolognese Pietro Fabbri fu affidato l’incarico nel 1791 di realizzare l’affresco a soffitto di una sala al piano nobile del Palazzo  in omaggio a “l’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo come Cibele Madre di tutti i popoli”mentre a Parigi a seguito della Rivoluzione, la figlia dell’imperatrice Maria Antonietta, prigioniera dei rivoluzionari francesi, attendeva la sentenza di morte nella prigione del Tempio .
All’abilità dei figuristi Giuseppe Antonio Valliani, Emilio Manfredi e Francesco Sardelli furono affidate le ultime decorazioni ad affresco dal salottino” à la greque” dello appartamento d’inverno alla infilata delle sale che si snodano una nell’altra dietro la lunga facciata.
Oggi il Palazzo Pallavicini è il preziosissimo contenitore di Storia dell’arte bolognese che ospita nei suoi fastosi saloni mostre d’arte contemporanea di grande interesse.

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© Imelde Corelli Grappadelli, February 2019
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