GIOIELLO IDEALE

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2022/05/04

Giubileo di platino: la Regina Elisabetta e 900 anni di storia della gioielleria. La Corona Imperiale di Stato

Corona Imperiale di Stato

I gioielli che compongono il tesoro della corona britannica sono 140 su cui sono incastonate 23.578 pietre preziose per un valore stimato in circa 3 miliardi di sterline. La collezione di gioielli reali che non è assicurabile per il valore troppo elevato è conservata all’interno della Jewel House nella Torre di Londra; si racconta che durante la seconda guerra mondiale, a causa dei bombardamenti si preferì metterli al sicuro in un luogo nascosto nel castello di Windsor e per non dettare sospetti furono portati fuori dalla torre nascosti in una scatola di biscotti. 
Era in visita ufficiale in Kenia il 6 febbraio 1952, quando il padre re Giorgio VI, affetto da un tumore ai polmoni, morì a seguito di ischemia; proclamata Regina, fu incoronata il 2 giugno 1953 nella Abbazia di Westminster quando l’arcivescovo le pose sul capo la corona di San Edward, simbolo della Corona Inglese e della autorità reale sul Commonwealth, la stessa che appare sullo stemma della Regina. 

Corona di Sant Edward


Stemma della Regina Elisabetta II














Questo è il più importante e famoso tra i gioielli della corona inglese, in oro massiccio pesa 2.400 gr, decorato da 444 pietre preziose e semi-preziose, realizzato nel 1661 per l’incoronazione di Carlo II, perché la precedente corona medievale era stata distrutta durante la guerra civile dai parlamentari di Oliver Cromwell nel 1649.
Dopo la cerimonia dell’incoronazione la regina Elisabetta per uscire in corteo dalla Abbazia di Westminster tolse la corona di S. Edward e indossò la Corona Imperiale di Stato, la stessa che indossa ogni anno all’apertura del parlamento inglese. 


Negli ultimi anni proprio a causa del peso, la regina ha preferito indossare un cappello molto elegante in seta, mentre la corona non indossata veniva portata da un valletto adagiata su di un cuscino e deposta su un panchetto vicino al trono.
 Questa corona fu realizzata dai gioiellieri londinesi Garrard per re Giorgio VI nel 1937 sul modello di quella che aveva indossato la regina Vittoria nel 1838. Il peso è di 1.060 gr, decorata da 2.868 diamanti, 17 zaffiri, 11 smeraldi, 269 perle, il diamante Cullinan II, lo zaffiro Stuart, lo zaffiro di S. Edoardo, il rubino del principe Nero. Per tradizione la corona può essere toccata solo da tre persone, il gioielliere per le riparazioni, la regina per indossarla ed il valletto per riporla.

Rubino del Principe Nero

Le ineguagliabili pietre che la impreziosiscono sono straordinarie come il Rubino del Principe Nero. Il rubino è una pietra preziosa, conosciuto nella antica letteratura indiana col nome di “corundum” dal Sanscrito “kuruvinda” “re delle gemme”. Nei testi puranici, testi sacri hindū, si legge che il dio-sole Surya rubò il sangue di Bala, un demone che aveva grandi poteri, e fuggì vagando per i cieli. Il re dello Sri Lanka, Ravana, decise però di far cessare il volo del dio, geloso della sua magnificenza, ma il dio sole Surya spaventato, lasciò cadere il sangue del demone che si depositò sul fondo di un lago nella regione di Bhararta. In poco tempo le rive del lago si riempirono di splendide pietre preziose color rosso sangue, luminose e potenti come il dio-sole Surya. In Birmania invece si racconta così l’origine delle miniere di Rubini di Mogok: seimila anni fa un serpente depose tre uova: da una nacque il re della Cina, da un’altra il re di Bagan, antica capitale birmana, e dall’ultima le miniere di Mogok. Mogok detta anche Ruby Land è l’area mineraria più famosa dell’Asia, situata in Myanmar, nella regione di Burma, al confine con la Cina. Il gigantesco rubino incastonato nella corona imperiale che viene chiamato “il rubino del principe Nero” pesa 170 carati, pari a circa 34 g, ha una lunghezza di circa 5 cm ed una forma irregolare, non è sfaccettata solo lucidata. Questo rubino appartenne al principe gallese Edoardo di Woodstock detto il Principe Nero per il colore della sua armatura. La storia di questa pietra inizia in Spagna: nel 1362 Pietro I “il crudele” invitò con una scusa il sultano di Granada Abu Said “Muhammad VI” a Siviglia per trattare affari per poi farlo assassinare. Nelle tasche del Sultano fu trovato questo  splendido rubino che entrò a fare parte dei gioielli della corona Castigliana. Pochi anni dopo, nel 1366, Pietro I dichiarò guerra al fratellastro Enrico l'Aragonese, e per riuscire nella difficile impresa chiese aiuto al Principe Nero, che lo portò alla vittoria ma in cambio pretese ed ottenne, oltre al denaro pattuito, il Rubino di Muhammad VI. Subito in Inghilterra si sparse la voce che questo rubino proteggesse dai colpi mortali e conducesse alla vittoria. infatti Enrico V lo incastonò nell'elmo che indossò il 25 ottobre del 1415, nella battaglia di Angicourt, nella Guerra dei Cent’anni, fu colpito alla testa dall'ascia del Duca francese Giovanni I di Alençon, non morì e vinse la battaglia. Purtroppo non andò così bene a RiccardoIII, ultimo re Plantageneto, aveva il rubino incastonato nel suo elmo, ma morì a Bosworth Field nella battaglia cruciale della Guerra delle due rose e con lui finì la dinastia dei Plantageneti ed iniziò la dinastia Tudor. Giacomo I, figlio di Maria Stuarda, riunì le tre corone, inglese, scozzese ed irlandese e fece incastonare il rubino nella Corona reale inglese dove rimase fino al 1648 quando Oliver Cromwell fece fondere la corona e vendere la pietra. Nel 1661, con la Restaurazione di Carlo II, il rubino fu riacquistato e tornò a far parte dei gioielli della corona inglese. Nel 1851 una perizia gemmologica dimostrò che il rubino del Principe Nero è in realtà uno Spinello o Balasso probabilmente  trovato nelle miniere del Badakshan in Afganistan. Il rubino e lo spinello sono due pietre assolutamente simili e confondibili sia per il colore che per la brillantezza, il rubino è un ossido di alluminio mentre lo spinello è un ossido di alluminio e magnesio, però il rubino presenta un forte dicroismo all’esame con il dicroscopio che lo certifica. 

Diamante Cullinan II

Ad oggi,nonostante ciò, ha conservato il suo nome leggendario di "il Rubino del Principe Nero”; e il re Giorgio VI lo volle incastonato nella corona imperiale sovrapposto al preziosissimo Diamante Cullinan II di 317 carati, una pietra preziosa nuova nel tesoro della Corona. Anche la storia di questo diamante è affascinante .

Diamante Cullinan grezzo

“Il 26 gennaio 1905, al tramonto, nella miniera Premier a Pretoria”, così inizia il racconto di Frederick Wells responsabile di superficie della miniera: "Pensavo fosse un vetro quell'oggetto che rifletteva i raggi del sole al tramonto sulle pareti della miniera….,  invece era un diamante, un diamante di enorme grandezza del peso di 620 grammi pari a 3.106 carati..... L’impiegato della miniera responsabile del controllo del grezzo lo aveva in mano e lo lanciò fuori dalla finestra del suo hangar dicendo che non era un diamante! Corsi a riprenderlo e il direttore della miniera “Premier Diamond Mining Company” Sir Thomas Cullinan, lo esaminò e lo riconobbe come diamante di straordinaria bellezza dandogli il suo nome: “Cullinan”. In questo modo così rocambolesco questa magnifica pietra entrò nel novero delle pietre più importanti del mondo, è un cristallo incolore con pochissime inclusioni, presenta una forma anomala perché una faccia è liscia come se si fosse sfaldata lungo il piano di clivaggio, facendo supporre che ne mancasse una parte. La bellezza, la purezza, il colore, il peso ne definirono subito la preziosità. Subito sorse il problema della sua sicurezza e su come trasportarlo fino a Città del Capo. Decisero di nasconderlo dentro la cappelliera della moglie di un impiegato delle poste. La pietra arrivò felicemente a destinazione, ma ora bisognava spedirlo in l'Inghilterra e anche per questo viaggio si ricorse ad uno stratagemma. Si assicurò un pezzo di vetro della forma del Cullinan per la cifra i 1.250.000 sterline e lo si fece viaggiare chiuso e guardato a vista nella cassaforte del comandante di un battello postale, mentre il vero Cullinan fu spedito con un pacco di posta ordinaria. Entrambi giunsero a Londra dove il diamante prima di essere chiuso in un caveau fu mostrato a re Edoardo VII, con la speranza che il re lo comprasse. Per circa due anni non si trovò un acquirente, la pietra era troppo costosa. Poi un colpo di scena: Louis Botha primo ministro del Transvaal la comprò per farne dono al re d'Inghilterra Edoardo VII in occasione del suo 66° compleanno come ringraziamento per aver loro concesso l'Autogoverno. Botha incontrò una fortissima opposizione fra i suoi connazionali, che non volevano impegnarsi in una spesa così grande quando avevamo problemi tremendi di bilancio e miseria, ma alla fine la pietra fu acquistata per la cifra di 150.000 sterline e a Frederick Wells, che l'aveva trovata, furono date 3.500 sterline come ricompensa per la sua onestà. A questo punto il re decise di fare tagliare l'enorme diamante ricevuto in dono dalla famosa taglieria “I. J. Asscher " di Amsterdam e il 10 febbraio 1908 alle ore 14'45 iniziarono i lavori. 

Taglieria I.J. Asscher

Gli olandesi dopo lunghissimi studi e simulazioni avevano deciso di tagliare la pietra lungo il suo piano di sfaldatura poiché si temeva che utilizzando il sistema tradizionale della ruota diamantata in una pietra di così grandi dimensioni il calore generato dallo sfregamento potesse far piegare il disco della sega e quindi modificare la linea di taglio prevista. Un grande azzardo ma questa era la strada da percorrere. Dopo avere fissato il diamante con la pece al tavolo intaccarono la superficie della pietra con una scanalatura a forma di V su cui appoggiarono una lama di acciaio che fu percossa da un pesante martello. Il primo colpo spaccò la lamina di acciaio mentre il diamante rimase integro, al secondo colpo con un secco Tac il diamante si aprì in due parti: 1.977,50 carati l'una e 1.040 carati l'altra. Si dice, ma non è documentato, che a questo punto Joshep Asscher  che aveva sferrato il colpo di martello, cadesse a terra svenuto, ma la famiglia smentisce. Dal taglio si ricavarono nove pietre di grandi dimensioni  e 96 più piccole. Con il taglio si perse circa il 65%del peso, dagli iniziali 3.106 carati il peso complessivo delle pietre tagliate si è ridotto a 1.063 carati. Le due pietre più grandi furono incastonate nei gioielli della Corona Inglese.  il Cullinan I  del peso di 530,20 carati, a forma di pera, detto "The Great Star Of AfricaI" è nello scettro reale, e il Cullinan II,”The Great Star Of Africa II” tagliato a cuscino, del peso di 317,40 carati, è incastonato in platino nella Corona Imperiale. 

Le nove pietre tagliate dal Cullinan

Le altre 7 pietre rimasero ai tagliatori come pagamento del loro lavoro, tuttavia il re acquistò il Cullinan VI, taglio a marquise del peso di 11,5 carati, per donarlo alla regina Alessandra, mentre le altre  sei furono acquistate dal governo del Transvaal e di nuovo nel 1910 il ministro Botha convinse il Governo a regalarle alla regina Maria moglie di Giorgio V, succeduto ad Edoardo VII,  così a Palazzo Reale  arrivarono il Cullinan III, taglio a goccia del peso di 94,4 carati; il Cullinan IV, taglio a cuscino del peso di 63,6 carati; il Cullinan V, taglio a pera 18,8 carati; il Cullinan VI, taglio marquise di 11,5 carati; il Cullinan VII, taglio a marquise di 8,80 carati; il Cullinan VIII, taglio a cuscino di 6,80 carati; il Cullinan IX, taglio a pera di 4,39 carati montato in un anello. Oggi il valore stimato per il Cullinan I è di quattrocento milioni di dollari, mentre per il Cullinan II la stima è pari a duecento milioni di dollari. Sul retro della corona imperiale in opposizione al rubino del principe Nero è incastonato lo zaffiro Stuart. 

Zaffiro Stuart

Zaffiro dal sanscrito significa”blu”, mentre in ebraico”la cosa più bella”. La leggenda persiana dice che la terra si appoggiava a un grande zaffiro il cui riflesso si stagliava nel cielo, mentre per i greci, Zeus aveva incatenato Prometeo ad una roccia per avere rubato il fuoco degli dei, ma Ercole lo salvò e un anello della catena rimase attaccato al suo dito e con lui un pezzo di roccia, uno zaffiro. Per gli egiziani era la pietra che muoveva gli astri, mentre per i Parsa indiani era la pietra della veggenza e della verità. Salomone aveva un anello magico con uno zaffiro e viaggiava senza corpo in altre dimensioni, Abramo ne portava uno al collo per proteggersi dalle malattie. Lo zaffiro Stuart pesa 104 carati è di forma ovale, di 2,54 cm di lunghezza ha un foro pervio nel senso longitudinale  per poterlo imperniare come ciondolo. Il suo bel colore blu è molto trasparente ed omogeneo. Questo zaffiro  era incastonato nella corona di Alessandro II quando fu incoronato re nel 1214, ma Edoardo I  Plantageneto detto "Longshanks" nel 1296 dopo avere sconfitto gli Scozzesi lo portò in Inghilterra assieme alla preziosissima “Pietra di  Scone” conosciuta come il “Cuscino di Giacobbe” (Genesi : capitolo28 ver. 10-22). 

Pietra di Scone

La “Pietra di Scone” detta anche pietra dell’Incoronazione era inserita nella seduta del trono (coronation chair) su cui si sedevano i re nel momento dell’incoronazione, ha la forma di un parallelepipedo rettangolare ed è di arenaria rossa. Fu usata dai re scozzesi da Kenneth I a Carlo II, poi da quelli inglesi fino alla Regina Elisabetta II. Nel 1996 la regina Elisabetta II l'ha restituita, come gesto di amicizia e di distensione politica, alla Scozia ed è attualmente custodita nel castello d'Edimburgo con i gioielli della corona Scozzese, col patto di riaverla, in prestito temporaneo, alla prossima cerimonia di incoronazione all’Abbazia di Westminster.  Lo zaffiro Stuart ha una storia affascinante e complessa. S’ignora da quale miniera provenga, nel 1214 è in Scozia, poi fu portato in Inghilterra da Edoardo I nel 1296, successivamente fu restituito alla Scozia da Edoardo III che  lo donò a suo genero David II di Scozia che a sua volta lo regalò alla sorella Marjorie Bruce moglie di Walter Steward e madre di Roberto II il primo re scozzese della dinastia Stuart da cui prende il nome: Zaffiro Stuart.   

Corona della Regina Vittoria

Successivamente lo zaffiro ricompare nelle proprietà di Edoardo IV che lo fece incastonare nella Corona di Stato, poi con la guerra civile del 1648 se ne perdono le tracce. Carlo II il Restauratore lo ritrova e probabilmente nel 1688 segue Giacomo II nel suo esilio in Francia. Rimase nella disponibilità della famiglia Stuart fino al Cardinale di York, l'ultimo della dinastia che morì nel 1807. A questo punto lo zaffiro tornò al principe Reggente poi re Giorgio IV che lo consegnò al Tesoro della Corona . C’è un altro zaffiro nella corona Imperiale di Stato ed è lo zaffiro di San Edoardo incastonato al centro della croce posta sopra il globo all’incontro dei quattro archetti. 

Zaffiro di San Edoardo

La storia di questa pietra è veramente suggestiva: Edoardo figlio di Etelredo II "L'Impreparato" e di Anna di Normandia fu incoronato re d’Inghilterra  il 3 di aprile del 1043. Aveva vissuto gran parte della sua vita in Normandia dove la sua famiglia si era rifugiata a causa delle continue incursioni Vichinghe. Rientrato in Inghilterra all’età di 40 anni fu incoronato Re e la Storia inglese lo ricorda come un Sant'uomo, un taumaturgo: molti i miracoli che compiva solo toccando le persone. Fu sepolto nell’Abbazia di Westminster e canonizzato nel 1161 da Papa Alessandro III. Viene chiamato Re Edoardo il Confessore perché per ben quattro volte il suo corpo fu traslato e ritrovato sempre integro: questo si considerò un miracolo. La Regina Vittoria nel 1838 fece realizzare la Corona Imperiale di Stato e volle che nel centro della croce posta in sommità della Corona fosse incastonato lo Zaffiro di San Edoardo il Confessore. Questo splendido zaffiro era incastonato originariamente nell'anello che fu donato nel 1043 ad Edoardo nel momento della sua incoronazione quale simbolo del "matrimonio" tra il re e il suo popolo. A quest’anello è legata la leggenda di San Giovanni Evangelista. Si racconta che re Edoardo incontrasse un mendicante vicino all’Abbazia di Westminster e non avendo monete con se gli regalò il suo anello regale. Il mendicante lo ringraziò e si allontanò. Anni dopo due pellegrini di ritorno dalla Terrasanta si recarono dal re Edoardo dicendogli di avere incontrato a Gerusalemme San Giovanni l'Evangelista che gli aveva consegnato l'anello da restituire al re e di dirgli che passati sei mesi si sarebbero incontrati di nuovo in Paradiso. Così fu. Questo preziosissimo anello fu conservato gelosamente nel tesoro della Corona, fino al 1648 quando fu venduto da Oliver Cromwell. Fortunatamente Carlo II "il Restauratore", nel 1661, ritrovò lo zaffiro, lo fece ritagliare e lo conservò nuovamente tra i gioielli della Corona. Noi oggi lo possiamo ammirare, in tutta la sua straordinaria bellezza, quando la regina Elisabetta II all’apertura annuale del Parlamento indossa la Corona Imperiale di Stato. 

Perle nella Corona Imperiale di Stato

Ma lo splendore di questa corona riserva ancora un altra sorpresa: alla sommità della corona imperiale inglese sotto il Globo Terrarum nel punto in cui convergono i quattro archetti, sono sospese quattro perle, due delle quali appartenute alla Regina Elisabetta I, figlia di Enrico VIII e di Anna Bolena, sorellastra di Maria la Sanguinaria da cui ereditò il regno, e cugina di Maria Stuarda che fece tristemente giustiziare. Elisabetta I fu una grandissima collezionista di perle, vere e false, e da Giacomo I Stuart acquistò quelle appartenute a sua madre Maria Stuarda. Maria Stuarda aveva ricevuto come dono per le sue nozze con Francesco II 7 magnifiche perle dalla suocera Caterina de Medici, perle che a sua volta la regina aveva avuto in dono dallo zio papa Clemente VII in occasione delle sue nozze con il re Enrico II di Francia. Concludendo la corona imperiale di Stato non è solo preziosissima per il valore delle straordinarie pietre che la decorano, ma anche per la storia legata a queste pietre che attraversano nove secoli partendo dal 1043 per arrivare al 1937! La passione per le perle caratterizza la regina Elisabetta I. Numerosissimi ritratti la rappresentano con migliaia di perle ricamate sulle vesti ed indossate sulla fronte, sul collo, ai polsi, alle orecchie racchiuse in stupefacenti gioielli e complesse collane. La Sua enorme collezione di gioielli è documentata da due inventari del 1600: "lo Stowe", conservato alla British Library a Londra e "il Folger ", conservato alla Folger Library di Washington. 

© Imelde Corelli Grappadelli, Maj 2022

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2022/04/08

CASA SAVOIA E I GIOIELLI DELLA CORONA

1032: il regno di Borgogna che comprendeva un ampio territorio tra Francia, Italia e Svizzera  si frammentò dando vita alle tre regioni della Borgogna, della Provenza e della Savoia, e il conte Umberto I Biancamano, “signore dei valichi”, unì la sua contea nella Moriana, che è la valle formata dal fiume Arc, con la Savoia strategica per i suoi passi alpini.  Amedeo I Biancamano, detto Coda, figlio di Umberto I nel 1051 aggregò nuovi territori verso nord-ovest con la contea di Belley, e ad est con Aosta. Oddone figlio di Umberto I e fratello di Amedeo la Coda, aggiunse la Grande Marca d’Italia con capitale Torino grazie al suo matrimonio con Adelaide Manfredi figlia di Olderico Manfredi II che portò in dote non solo la grande Marca d’Italia con capitale Torino, un feudo vastissimo che andava dalle Alpi al mar ligure, ma anche i territori acquisiti dai precedenti matrimoni cioè parte della Svevia e il Monferrato.


Adelaide  conosciuta  come Adelaide di Torino (Torino, 1016 – Canischio, 19 dicembre 1091), fu Margravia di Torino dal 1034 al 1091, Duchessa consorte di Svevia, dal 1037 al 1038, Marchesa consorte del Monferrato, dal 1042 al 1045, Contessa consorte di Moriana, dal 1046 al 1057 ed infine Contessa reggente di Moriana, dal 1057 al 1091.

Questi titoli corrispondono alle fasi della sua lunghissima vita. Si sposò tre volte, nel 1037 in prime nozze con Ermanno duca di Svevia (1014 – 1038), figlio di Gisella di Svevia e figliastro dell'imperatore Corrado II il Salico, terzo marito di Gisella,  da cui ebbe quattro figli, nel 1042 sposò in seconde nozze il marchese del Monferrato, Enrico figlio di Guglielmo III, che morì nel 1045 due anni dopo il matrimonio.

Rimasta vedova per la seconda volta, Adelaide, nel 1046 sposò Oddone Conte di Moriana da cui ebbe cinque figli, che morì dopo dieci anni di matrimonio. Adelaide fu tutrice  per i figli ancora bambini Pietro e Amedeo e poi per il nipote, Umberto II. 

Anche le due figlie Berta ed Adelaide sposarono personaggi di primissimo piano: Berta  (1051-1087) a quattordici anni il re Enrico IV, poi Imperatore del Sacro Romano Impero, a cui era stata promessa in sposa già all'età di tre anni, e Adelaide (1052-1079) Rodolfo di Svevia  eletto nel 1077 dai principi tedeschi Re dei romani in opposizione ad Enrico IV.

Adelaide, abile politica, era presente a Canossa dalla cugina Matilde  nel 1077, quando suo genero Enrico IV, scomunicato, chiese ed ottenne il perdono del Papa dopo aver atteso tre giorni in ginocchio, sulla neve. Lo stesso Enrico IV a cui Adelaide minacciò di chiudere il valico del Moncenisio al passaggio delle sue truppe, se avesse ripudiato la figlia Berta.  Purtroppo il nipote Umberto II, il Rinforzato, (1065 /1103) sopraffatto dai marchesi di Saluzzo e del Monferrato, nemici giurati dei Moriana, perse territori in Piemonte e nella riviera ligure. Invece ebbe miglior fortuna Tommaso I (1178/1189-1233), Signore dei Valichi, e Conte di Moriana che fu nominato vicario imperiale da Federico II e diede inizio alla dinastia cambiando il nome Moriana con Savoia  e incrementò il suo territorio incamerando  il Vaud, regione a sud-ovest della Svizzera occidentale compresa tra il Giura, le Alpi Bernesi e il Lago di Ginevra. Tommaso I sarà nonno di ben 4 regine, rispettivamente mogli di Luigi IX di Francia, di Riccardo di Cornovaglia, di Carlo d’Angiò, re di Napoli e di Enrico III Plantageneto.   


Abbazia di Altacomba
Infine Amedeo III (1095/1148) fratello di Tommaso I che legò il suo nome alla abbazia benedettina di Altacomba, sulle rive del lago Bourget, dove fece  costruire il Mausoleo di famiglia: qui negli anni saranno sepolti  trecento Savoia, fino al millesettecento quando la basilica di Superga a Torino divenne il nuovo mausoleo Savoia. Altacomba  dista circa 80 km. da Ginevra a cui oggi è collegata dalla “strada dei Duchi “ cosiddetta per i numerosi castelli edificati dai Savoia. In questa abbazia, come a chiudere un cerchio, sono sepolti  il re Umberto II e la regina Maria Josè, nella “Cappella dei principi” nella cripta di fronte alla tomba di Carlo Felice. Umberto II il re d’Italia esiliato non poteva essere sepolto sul suolo italiano per cui lo troviamo qui accanto ai progenitori della sua dinastia. Umberto II si trovava in Portogallo quando venne esiliato e il re replicò così: «La mia partenza dall'Italia doveva essere una lontananza di qualche tempo in attesa che le passioni si placassero.
Amedeo III

Poi pensavo di poter tornare per dare anch'io, umilmente e senza avallare turbamenti dell'ordine pubblico, il mio apporto all'opera di pacificazione e di ricostruzione
». «Mai si parlò di esilio, da parte di nessuno. Né mai, io almeno, ci avevo pensato».

Umberto II non abdicò e non rinunciò mai ai suoi diritti e continuò sempre a considerarsi un sovrano. Re UmbertoII di Savoia, esiliato dopo 34 giorni di regno non poteva mettere mai più piede sul suolo italiano. Ma perché il re si era allontanato dall’Italia così repentinamente? In quei giorni la situazione politica era precipitata e il re aveva preso la decisione di abbandonare temporaneamente l’Italia dove le crescenti proteste dei monarchici facevano pensare al peggio. Si temevano brogli elettorali avvenuti durante le operazioni di voto per il Referendum e per questo si protestava, come a Napoli in via Medina, dove i monarchici si scontrarono: nove  manifestanti persero la vita e centocinquanta rimasero feriti. Lo stesso 12 giugno a Roma una manifestazione monarchica era stata dispersa con la forza, nonostante le richieste di re UmbertoII di non spargere altro sangue innocente. 

Il 13 giugno alla mattina Il Consiglio dei Ministri stabilì che, a seguito della proclamazione dei risultati provvisori del 10 giugno, si era creato un regime transitorio e le funzioni di capo provvisorio dello Stato passavano ''ope legis'' e con effetto immediato al Presidente del Consiglio dei Ministri, in esecuzione dell'art. 2 del decreto legislativo luogotenenziale del 16 marzo 1946, n. 98.  Di seguito Epicarmo Corbino, ministro del tesoro nel primo gabinetto guidato da Alcide De Gasperi dal 10 dicembre 1945 al 14 luglio 1946, chiese a De Gasperi se si rendesse conto della responsabilità che si assumeva, dal momento che l'indomani sarebbe potuto apparire come un usurpatore del trono.

 I monarchici sostenevano che il governo non diede tempo alla suprema corte di ricontrollare le schede elettorali e portare alla luce eventuali brogli e per questo protestavano.

Lo stesso 13 giugno Umberto reagì diramando un polemico proclama, nel quale parlava di "gesto rivoluzionario" compiuto dal governo.


«Di fronte alla comunicazione di dati provvisori e parziali fatta dalla Corte suprema; di fronte alla sua riserva di pronunciare entro il 18 giugno il giudizio sui reclami e di far conoscere il numero dei votanti e dei voti nulli; di fronte alla questione sollevata e non risolta sul modo di calcolare la maggioranza, io, ancora ieri, ho ripetuto che era mio diritto e dovere di re attendere che la Corte di cassazione facesse conoscere se la forma istituzionale repubblicana avesse raggiunto la maggioranza voluta. Improvvisamente questa notte, in spregio alle leggi e al potere indipendente e sovrano della magistratura, il governo ha compiuto un gesto rivoluzionario, assumendo, con atto unilaterale e arbitrario, poteri che non gli spettano, e mi ha posto nell'alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire la violenza».


Re Umberto II, informato dal generale Maurice Stanley Lush che gli angloamericani non lo  avrebbero protetto da una eventuale attacco da parte dei fanatici repubblicani, né tantomeno da un eventuale attacco al palazzo del Quirinale decise di lasciare l’Italia per evitare una possibile guerra civile. Umberto era diventato re il 9 maggio 1946, senza una cerimonia di apparato ma con un passaggio di consegne, infatti lo Statuto Albertino prevedeva che alla abdicazione del sovrano seguisse nella successione come re il Principe ereditario. Il 9 maggio 1946 il re Vittorio Emanuele III a Napoli abdicò in favore del figlio Umberto e la sera stessa si imbarcò sull'incrociatore Duca degli Abruzzi e col titolo di conte di Pollenzo in esilio volontario si trasferì in Egitto con la regina Elena .


Il re Vittorio Emanuele III morì in esilio ad Alessandria d'Egitto, il 28 dicembre 1947, tre giorni prima dell’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana con la quale  il 1 di gennaio 1948 lo stato italiano decise la confisca del patrimonio dei Savoia  che riguardò solo il ramo maschile, cioè re UmbertoII,  mentre i quattro quinti rimasero alle eredi femmine Jolanda, Mafalda, Giovanna, Maria Francesca. Jolanda era sposata a Guido Calvi di Bergolo, Mafalda, morta ad Aushwizt, moglie di Filippo d’Assia Kassel, Giovanna sposa di Boris zar di Bulgaria, Maria Francesca moglie di Luigi Borbone Parma.


Tre anni fa, Il 15 e il 17 dicembre del 2019, nel santuario di Vicoforte in Piemonte furono traslati i corpi del re Vittorio Emanuele III da Alessandria d’Egitto e della regina Elena da Montpellier. Questo è stato possibile proprio  perché Vittorio Emanuele III morì tre giorni prima che entrasse in vigore la Costituzione (1° gennaio 1948) e, quindi, da cittadino di pieno diritto, inclusi gli onori dovuti a tutti i militari, ora riposa in terra italiana.

Il re Umberto II prima di imbarcarsi sull’aereo che lo avrebbe portato in Portogallo mise in salvo i gioielli della corona facendoli  depositare alla Banca di Italia dal ministro della Real Casa avvocato Falcone Lucifero.


I gioielli della corona conobbero momenti drammatici durante gli ultimi anni della guerra: era la sera del 6 settembre 1943 quando re Vittorio Emanuele III convocò a villa Savoia il direttore capo della Ragioneria del Ministero Di Casa Reale Livio Annesi e il direttore generale del Ministero della Casa Reale conte Vitale Cao di S.Marco perché mettessero al sicuro i gioielli della Corona che erano custoditi nella cassaforte n.3 del Palazzo del Quirinale: era lì che la Regina quando doveva indossarli faceva formale richiesta e alla loro restituzione firmava la ricevuta di avvenuta sostituzione. Gli incaricati decisero di portare il tesoro alla Banca di Italia, avvolsero l’astuccio di pelle in un foglio di carta anonima e lo depositarono nel caveau della banca. Di seguito Livio Annesi e Vitale Cao di S. Marco si recarono al Banco di Roma dove aprirono una cassetta di sicurezza che lasciarono naturalmente vuota, questo per depistare il luogo del reale deposito. Pochi giorni dopo la situazione politica italiana precipitò, a Napoli i tedeschi, gettata a ferro e fuoco la città , razziarono il contenuto delle cassette di sicurezza di Banche ed Istituti di credito devastandoli. Era necessario togliere i gioielli dal deposito della Banca d’Italia al più presto e nasconderli in altro luogo sicuro, e l’operazione era molto rischiosa. Il 23 settembre al mattino si incaricò il Comandante dei Corazzieri Ernesto De Sanctis di recarsi alla Banca di Italia a ritirare i gioielli quando la stessa banca era già controllata dai paracadutisti tedeschi. De Sanctis, accompagnato da un suo ufficiale di ordinanza, entrò con passo sicuro dicendo di essere atteso dal direttore della Banca d'Italia Luigi Einaudi, con abilità gli fu affidato il tesoro che speditamente riportò al Quirinale consegnandolo nuovamente a Livio Annesi e Vitale di S. Marco. A questo punto  pensarono di nasconderlo sottoterra usufruendo di un cunicolo scavato nel XVI secolo sotto la "Manica Lunga” che collegava il Quirinale con Palazzo Barberini verso la chiesa di S. Andrea. Con l’aiuto del muratore Fidani scavarono una nicchia nel muro del cunicolo e lo nascosero al suo interno ricoprendolo con grosse pietre trovate lì vicino. Potete immaginare l’emozione quando pochi giorni dopo un ufficiale tedesco accompagnato da due sottufficiali chiese di incontrare Livio Annesi e mostrando un ordine scritto pretese il tesoro della Corona Savoia per il Führer. Livio Annesi rispose rammaricato che il tesoro non c'era più e che il re lasciando la capitale lo aveva portato con sè, ma l'ufficiale tedesco volle ispezionare ugualmente la cassaforte del Quirinale n.3 che naturalmente trovò vuota.

Il 6 giugno 1944 al rientro di Umberto di Savoia come luogotenente del Regno venne riportato alla luce il tesoro e rimesso al suo posto nella cassaforte n.3. al Quirinale. 


Il 5 giugno 1946 Umberto II di Savoia, ordinò al Ministro della Real Casa Falcone  Lucifero, di consegnare i Gioielli della Corona Savoia nelle mani del Governatore della Banca d'Italia Luigi Einaudi perché li conservasse nel caveau della Banca d'Italia a disposizione di chi di diritto. Il Governatore replicò "questi gioielli erano i suoi, nessuno gli avrebbe chiesto nulla se egli avesse continuato a tenerli". Il 13 giugno dall'aeroporto di Ciampino l'ultimo re di Italia volò verso il Portogallo dove raggiunse la famiglia che lo aveva preceduto. 


Re Umberto II

I Gioielli della Corona ad oggi, sono custoditi nel caveau della Banca d’Italia dove furono riposti nel 1946, conservati all'interno di un astuccio di pelle a tre vassoi, che misura cm. 39x31x20, con chiusura a chiave, incartato in un foglio di carta catramata e sigillato con 11 sigilli: 5 sigilli del Ministero della Real Casa, 3 della Banca di Italia di Roma, 3 della Banca di Italia -Cassa Centrale - reparto controllo. Il deposito fu periziato dal Sig. Davide Ventrella, presidente della Federazione Nazionale Orafi d'Italia, il verbale riporta una dettagliata descrizione degli oggetti inventariati, dichiarati tutti gioie autentiche e di rilevante valore, ma non li stimò perché non richiesto. Dai verbali sappiamo che erano circa 6.298 diamanti di vario peso e taglio per un totale di 1.702 carati, un eccezionale diamante rosa dono del maresciallo Marmont, 64 perle rotonde e 11 perle a goccia. Il tesoro della corona Savoia nacque la notte del 29 luglio 1900, a Monza, dopo la morte tragica del re Umberto I assassinato per mano dell'anarchico Gaetano Bresci.  Quattro giorni più tardi la Regina Margherita, di suo pugno, sotto l'elenco dei gioielli scrisse questo biglietto d’accompagnamento: "I gioielli della Corona sono stati consegnati a sua Maestà Regina Elena, mia nuora, il giorno 2 agosto 1900, in Monza. Margherita". Questi gioielli saranno indossati dalla Regina Elena nelle occasioni ufficiali seguendo il rigido cerimoniale che prevedeva una richiesta formale scritta , un verbale ed emissione di ricevuta di avvenuta restituzione. La regina Maria Josè non ebbe mai modo di indossarli.

Falcone Lucifero nel suo diario scrisse: “Roma, 5 giugno, mercoledì, nel pomeriggio si depositano alla Banca d’Italia le gioie della Corona, che io vedo per la prima volta e che sono davvero meravigliose: valgono più di un miliardo!”


© Imelde Corelli Grappadelli, April 2022

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2022/03/22

PAOLO, FRANCESCA E GIANCIOTTO TRA AMORE E MORTE: LA STORIA CHE DIVENTA LEGGENDA

"Quali colombe dal disio chiamate ......" Dante, Inferno, canto V, 82

Venerdì 8 aprile 1300, sera, Dante e Virgilio entrano nel secondo cerchio dell’Inferno dantesco e incontrano Minosse.
Il giudice infernale  ascolta i peccati delle anime dannate e attorciglia la sua coda attorno al loro collo indicando così il numero del cerchio da raggiungere per scontare la pena eterna, ma si infastidisce nel vedere che Dante è vivo e lo ammonisce a non fidarsi di Virgilio che a sua volta lo zittisce dicendogli che il viaggio è voluto da Dio: ”così si fa come si vuole..”
Dante e Virgilio possono proseguire il loro cammino ed entrano nel cerchio dei lussuriosi “i morti violentemente per amore” dove riconoscono tante anime: Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena, Achille, Paride,Tristano ma non due spiriti che volano accoppiati ed è con loro che Dante vuole parlare.
I due si staccano dalla schiera dei dannati e volano verso Dante come due colombe che vanno verso il loro nido, sono un uomo e una donna la quale parla ringraziandolo per la pietà provata verso di loro. Poi si presenta, dice di essere nata a Ravenna e di essere legata in modo indissolubile all’uomo che le sta accanto nella morte, furono entrambi assassinati e la Caina al IX cerchio dell’inferno attende il loro assassino.
Dante è turbato, colpito dal loro legame di amore tale da portarli alla perdizione e chiede a Francesca di raccontargli cosa successe: così Francesca narra di un giorno in cui lei e Paolo leggevano per divertimento un libro che parlava di Lancillotto cavaliere e della regina Ginevra, ma la lettura li coinvolse cercandosi con lo sguardo e quando lessero il punto in cui è descritto il bacio fra i due amanti anche loro si baciarono e interruppero la lettura del libro che fece da mezzano alla loro relazione amorosa.  Francesca parla e Paolo resta in silenzio piangendo, Dante sopraffatto da tanto amore è turbato e sviene.

Paolo e Francesca  a Ravenna.

1270 Ravenna è una città fiorente sotto l’amministrazione dell’arcivescovo Filippo (1251-1270) il legato pontificio della Romagna, ma alla sua morte iniziarono lotte intestine tra le  famiglie ravennati  Traversari e Da Polenta per conquistarne la Podestà.
La famiglia Traversari  è senza dubbio la più importante, di antichissimo lignaggio, proveniva da una località a sud di S.Pietro in Vincoli al confine fra il ravennate e il forlivese. Nella seconda metà del V secolo Teodoro il capostipite di questa casata fu un generale al servizio di Odoacre, re degli Eruli che il 23 agosto 476 fu proclamato Re di Italia dalle sue truppe, segnando la fine dell’Impero Romano d’Occidente, finché Teodorico l’Ostrogoto, incaricato da Zenone, imperatore dell’impero Romano d’Oriente dopo avere conquistato Ravenna lo sconfisse. La storia racconta che il 15 marzo 493 Teodorico invitasse Odoacre ad un banchetto per sancire la pace ma lo uccidesse trafiggendolo con la spada.
Teodoro Traversari al servizio di Odoacre aveva ricoperto importanti e prestigiosi incarichi arricchendosi tanto da edificare un suo castello fra Bagnacavallo e Ravenna in una località che oggi si chiama Traversara  vicino al fiume Lamone. Teodoro riuscì a  mantenere i suoi incarichi ed interessi anche sotto il regno di Teodorico migliorando notevolmente la sua condizione sociale diventando Duca, titolo trasmissibile alla sua discendenza, poi Prefetto di Ravenna, quindi Patrizio e poi Console.
Anche con la caduta di Teodorico e l’avvento dei Bizantini la famiglia Traversari riuscì a mantenere  le importanti cariche istituzionali e il ruolo prestigioso raggiunto e numerosi furono i personaggi di questa famiglia  famosi in tutti gli ambiti, anche quello religioso come S.Romualdo (952) il fondatore dell’Eremo di Camaldoli nel Casentino e della Congregazione camaldolese dell’Ordine Benedettino che era figlio del duca Sergio degli Onesti e di Traversara Traversari. Nel 1000 un ramo della famiglia si trasferì a Venezia ottenendo il patriziato e cambiando cognome in “Da Lezze”, mentre il ramo ravennate continuava ad incrementare territorio, da Adria a Comacchio a Imola, Cervia, Faenza, Rimini, Iesi e Ancona. Era la famiglia ghibellina più importante di Ravenna; si ricorda che nel 1226 Pietro III Traversari ricevette l’imperatore Federico II di  Svezia a Ravenna e che lo aiutasse a formare l’esercito per combattere la seconda Lega Lombarda.
Tuttavia nel 1239 i Traversari  diventarono Guelfi fedeli al Papa. La reazione dell'imperatore fu immediata e feroce. L’8 agosto 1240 morì Paolo II Traversari senza avere un successore, Federico II marciò repentinamente contro  Ravenna e dopo 3 giorni di assedio la conquistò, entrò in città e cacciò i Traversari (15 agosto 1240).
I membri della famiglia Traversari che si salvarono dal massacro furono esiliati in Puglia e solo alla morte di Federico II, come da lui deciso nel testamento, poterono rientrare a Ravenna riprendendo titoli e beni. Le tre figlie di Paolo II subito si sposarono  legandosi alle tre famiglie reali più importanti:  Ayca  sposò Filippo Augusto poi Re di Francia, Elisabetta sposò Stefano figlio del re di Ungheria e Tramontana sposò il re Alfonso II d’Aragona e Provenza.
La famiglia ben presto riprese gli antichi fasti e nuovamente li ritroviamo Podestà di Ravenna fino al 1275 con Teodoro Traversari che sarà l’ultimo a ricoprire questa carica.
La famiglia Traversari era anche  imparentata con la famiglia da Polenta perché Caterina
una figlia di Paolo II Traversari che sposò Lamberto da Polenta, fu la madre di Guido e nonna di Francesca “da Rimini”.
La famiglia Da Polenta molto più modesta e senza alcuna discendenza notabile,  proveniva dal castello di Polenta nel territorio di Bertinoro, e nel XII secolo si era trasferita a Ravenna dove in breve tempo aveva acquisito una certa rilevanza, sopratutto come enfiteuti e funzionari religiosi. Di sicura matrice guelfa decise di mettersi in gara per la podestà della città di Ravenna, che era sotto il controllo della famiglia Traversari.
Il capostipite della famiglia da Polenta è Guido il Vecchio, (1250-1310) la madre è una Traversari, Caterina, figlia di Paolo II, sposato con Fontana ha nove figli, i più autorevoli sono Lamberto,(-1316) abile diplomatico signore di Ravenna, Bernardino (-1313) signore di Cervia dopo avere sposato Maddalena Malatesti, Francesca (-1286?) che sposò Giovanni Malatesta detto Gianciotto,  Ostasio che sarà il padre di Guido Novello.
La famiglia da Polenta originaria si era divisa in due rami: Guido Riccio da Polenta ghibellino  che governava sui territori comacchiesi e che si schiererà con i Traversari, e Guido il Vecchio guelfo che mantenne i possedimenti a Ravenna.
La famiglia da Polenta  dal 1275 al 1444 terrà incondizionatamente la podestà di Ravenna, un ricordo va a Guido Novello da Polenta (1275-1333) figlio di Ostasio, sposato a Caterina Malabocca contessa di  Bagnacavallo che  ebbe quattro figli e fu podestà di Ravenna dal 1316 al 1322. Fu il grande mecenate di Dante Alighieri che accolse nel suo palazzo a Ravenna, un cenacolo culturale di comuni interessi umanistici. Guido incaricò Dante di una missione diplomatica e lo inviò a Venezia nel 1321 per dirimere la disputa sul commercio del sale delle saline di Cervia. Dante riuscì nell’intento ma rientrando a Ravenna vicino a Comacchio contrasse la malaria e di li a poco morì. Guido Novello gli dedicò funerali solenni nella Basilica di San Francesco. L’anno seguente Guido Novello diventato Capitano del popolo a Bologna, lasciò la signoria al fratello Rinaldo, arcivescovo, che fu assassinato dal nipote Ostasio.
Guido tornato prontamente a Ravenna morì combattendo per riprendere la città dai suoi parenti.
Ma torniamo al 1275.
Per riuscire nell’ambizioso progetto di diventare podestà Guido da Polenta ha bisogno di un alleato forte e sicuro che lo porti alla vittoria certa contro i Traversari e questo poteva essere Malatesti da Verrucchio, il Mastin Vecchio, quindi è con lui che iniziano le trattative segrete per stringere alleanza.
La famiglia Malatesti discende dalla Gens Cornelia, quindi da Scipione l’Africano, così come ci ricorda il loro  simbolo, un elefante  avvolto in un cartiglio su cui è scritto “Elephas indus culicet non timet” l’elefante non teme la zanzara. 
Questa famiglia dalla Marca si spostò a Verrucchio e poi a Rimini dove governerà fino al 1528.
Si contano tre rami cadetti: i Malatesti di Sogliano, i Malatesti di Ghiaggiolo, i Malatesti conti di Santa Maria Capua Vetere. Dante chiamerà Mastin Vecchio Malatesti da Verrucchio che è un soldato che si muove nelle file ghibelline, ma nel 1248, dopo la sconfitta di Federico II nella battaglia di Parma Fornovo, si schierò con il Papa diventando Guelfo, nel 1295 scaccia i ghibellini da Rimini e diventa Podestà fino alla sua morte nel 1312.
Ebbe due mogli Concordia dei Pandolfini che gli dette tre figli: Giovanni (-1304) detto Giangiotto, Paolo il Bello (-1285), Malatestino (-1317) “quel traditore che vede pur con l’uno” (Inferno XXVIII, 76, 90), e dalla seconda moglie Margherita Paltromeri detta Taddea un solo figlio Pandolfo I (-1326) signore di Rimini dal 1317.
La discendenza di Mastin Vecchio diede vita alla signoria di Rimini: tra tutti desidero ricordare  Sigismondo Pandolfo “il lupo di Rimini” (1417-1468) che fu uno dei più audaci condottieri della sua epoca, ma perse quasi tutto il suo territorio, il fratello Domenico sposato a Violante da Montefeltro (1429-1465) ultimo signore di Cesena e fondatore della Biblioteca Malatestiana, la prima biblioteca civica d’Europa, infine Pandolfo IV (1475-1534) detto Pandolfaccio un incapace che fu costretto a vendere la Signoria di Rimini per 2900 ducati alla Repubblica Veneziana e con lui si concluse la signoria malatestiana.
Mastin vecchio ripone grande fiducia nel figlio soldato Giovanni detto da Dante “Zotto” (Inferno V, 73-142) per via di una malformazione fisica, Giangiotto, lo sciancato.
Ottimo cavaliere coraggiosissimo, combattè al fianco del padre per aiutarlo ad insediarsi nei territori contesi ai Montefeltro. Dal 1288 al 1304 fu podestà di Pesaro per cinque volte.
Si sposò due volte, la prima con Francesca da Polenta da cui ebbe due figli, Francesco morto alla nascita e Concordia. In seconde nozze sposò Zambrasina degli Zambrasi di Faenza figlia di Tebaldello, da cui ebbe cinque figli.
Di Francesca da Polenta figlia di Guido, la prima moglie, non si conosce la data di nascita ne quella di morte. In realtà di Francesca non si hanno documenti ad eccezione di una clausola del testamento di Mastin il Vecchio in cui dice: ”che non diano molestia gli eredi per la dote da lui avuta dalla fu Francesca già moglie del fu Giovanni suo figlio e madre di Concordia.”
La storia di Francesca è il frutto della tradizione cortese e della vox populi raccolta dai Commentatori danteschi, Jacopo Alighieri e Ser Graziolo dei Bambaglioli.
Il personaggio di Francesca così delicato e innocente che noi conosciamo e che la tradizione racconta è quello che Giovanni Boccaccio dipinse nelle sue lezioni sopra la Commedia il gennaio 1374 nella chiesa di santo Stefano della Badia a Firenze. Diventa un personaggio cortese, innocente, vittima dell’amore. 
Ritorniamo a Ravenna, al 1275  dove impazza la battaglia tra i da Polenta e i Traversari .
Le due fazioni sono schierate ma il successo non è sicuro, occorre agire d’astuzia.
I Traversari si sono alleati con Guido Riccio da Polenta ghibellino. Guido da Polenta invece segretamente aveva stretto un accordo con i Malastesti.
Sembra su consiglio di Lamberto, il figlio maggiore di Guido, si addottò una strategia:
tutti i famigli della famiglia da Polenta con masserizie, animali, bambini furono mandati al sicuro a Bertinoro, le case sembravano abbandonate ma in realtà c’erano rimasti ben nascosti i soldati. I Traversari si avvicinarono alle case sicuri di trovarle deserte perché delle spie li avevano informati che i da Polenta erano fuggiti, invece all’improvviso  uscirono i soldati con le spade sguainate mentre alle loro spalle si schierarono cento fanti di Giangiotto che li bloccarono impedendone la fuga.
La vittoria fu schiacciante e totale: il vittorioso Guido da Polenta  diventò Podestà della città di Ravenna inaugurando il trionfo della casa da Polenta con cariche da Rettore e Console, lo stemma un aquila rossa su fondo oro.
Francesca fu il prezzo pagato dal padre Guido per la vittoria ai Malatesti, la sua adorata figlia, bellissima, di lei si sta già parlando nelle corti, intelligente e sapeva leggere.
Il pensiero di dare in sposa la sua adorata figlia forse sarà stato edulcorato dal pensiero che prima o poi come moglie di Gianciotto sarebbe diventata signora di Rimini.
Le nozze furono celebrate per procura, non ci fu una cerimonia religiosa e il contratto fu firmato in conformità alla legge davanti al notaio, ma non era presente Giangiotto bensì il bellissimo fratello Paolo.
Perché Gianciotto delegò il fratello? Come dice Boccaccio: ”voi dovete sapere chi è vostra figliola, e quanto ell’è di altiero animo; e se ella vede Gianciotto, avanti che il matrimonio sia perfetto, ne voi ne altri potrà mai fare che ella il voglia per marito”.
Probabilmente nella realtà Giovanni non poteva tornare a Ravenna per sposarsi perché richiamato dal padre a Rimini, deve proteggerlo da un imminente attacco dei Montefeltro che volevano riprendersi i territori di Roversano e Cervia.
Quindi fu incaricato Paolo il bello di recarsi a Ravenna e a condurre Francesca a Rimini.
Francesca doveva avere circa quattordici anni, Giovanni molti di piu. 
Paolo il bello, “uomo piacevole e costumato molto” era già sposato con Orabile Beatrice dei conti Severi di Ghiaggiolo ed era padre di due figli Uberto e Margherita.
La leggenda dice che Francesca fu colpita dalla sua bellezza e accettò volentieri di sposarlo, credendo che fosse lui lo sposo, poi seppe la verità, che era un matrimonio per procura!
Il banchetto nuziale durò fino al giorno successivo, il cibo prelibato è ricercato, dal pane bianchissimo al pasticcio di anguille, dal vino bianco e rosso ai capponi, vitelli, capretti e tantissime spezie e confetti per rispecchiare il prestigio e il benessere dei nuovi signori di Ravenna.
Il legame con la famiglia Malatesti fu ulteriormente suggellato col matrimonio tra Bernardino da Polenta con Marianna Malatesti che diventerà signore di Cervia.
Il viaggio per raggiungere Rimini durò il tempo necessario fermandosi nelle locande a mangiare e proseguendo il viaggio, fino ad arrivare al rione Cittadella dove era la Domus dei Malatesti e fu li che Francesca incontrò il suocero Mastin Vecchio, la seconda moglie Margherita sua coetanea e Giovanni. Si racconta che lei fosse bellissima coi capelli scuri e occhi chiari, lui bruttissimo, capelli rossi e viso barbuto.
Paolo era ripartito subito per tornare a Ghiaggiolo dalla moglie Orabile Beatrice de Severi.
Di Paolo si diceva che fosse affascinante, bellissimo, coraggioso, ottimo politico, incantatore di uomini e donne, valoroso guerriero.
La moglie  Orabile Beatrice è ultima discendente di un ducato bizantino Ghiaggiolo, zona di valico tra la Romagna e la Toscana, ambita dalle famiglie Severi che l’ottennero, dai Montefeltro, dai Malatesti, dai Guidi di Bagno.
Castel Ghiaggiolo si trova sull’Appennino e dipende dalla Chiesa di Ravenna nella diocesi di Forlimpopoli, oggi è una frazione di Civitella di Romagna. I Montefeltro l’ambivano poiché Guido da Montefeltro aveva sposato la zia di Orabile Beatrice, per cui vantava delle pretese sul territorio, ma fu più scaltro Mastin Vecchio, nemico del padre che aveva tentato di spogliare di tutte le sue terre, che la fece sposare al figlio Paolo.
I Severi erano una famiglia ghibellina, ma 1268 con la morte di Corradino di Svevia, tutto era perduto, il 28 agosto 1269 a Urbino Orabile Beatrice nella chiesa di Santa Croce cedeva tutto quanto possedeva a Ludovico quondam Rinaldo delle Camminate che era procuratore malatestiano.
Quindi il matrimonio con Paolo Malatesti che segnò l’inizio di un nuovo ramo della famiglia, i Malatesti da Ghiaggiolo.
Dante nel XXX canto dell’Inferno ricorda indirettamente Margherita da Ghiaggiolo, la figlia di Paolo e Beatrice Orabile, che aveva sposato un conte dei Guidi di Romena. Infatti Dante fa parlare il maestro Adamo, il falsario condannato alla idropisia nella bolgia dei falsificatori. Adamo è l’orafo incaricato dai Guidi di Romena di falsificare il conio fiorentino, arrestato proprio mentre a Firenze spendeva il denaro contraffatto, per cui fu condannato al rogo: era il 1281. L’astio che prova nei confronti di Guido, Alessandro Aghinolfo da Romena è tale da superare il dolore della pena stessa, ma non dimentica la bellezza delle terre Casentinesi: ”Li ruscelletti  che di verdi colli del Casentin discendono giusto in Arno facendo i lor canali freddi e molli, sempre mi stanno innanzi…”
Paolo sposando Orabile Beatrice doveva controllare e difendere la contea di cui era diventato proprietario, era un compito gravoso vigilare e difendersi dalle incursioni dei Montefeltro, quando il 6 marzo 1282 papà Martino IV volle che la carica di Capitano del Popolo a Firenze fosse ricoperta da Paolo Malatesti, signore di Rimini, Conte di Ghiaggiolo.
Paolo avrebbe dovuto svolgere il ruolo di giudice e di conservatore della pace, ma le cose andarono diversamente.
A Firenze dopo la morte di Federico II (1250) nasce il Governo del Primo Popolo che vede l’ascesa al potere delle Arti, cioè quella Gente Nova descritta da Dante costituita da mercanti, giuristi e banchieri. Nasce il Consiglio dei 12 anziani con due rappresentanti per ogni sestriere, il Consiglio dei 36 Buonomini, il Capitano del Popolo che andò ad affiancare con le stesse funzioni, il Podestà che era eletto dalla classe aristocratica. Queste due magistrature si avvalevano di un consiglio costituito rispettivamente da 90 e 300 uomini. Durante il trentennio 1250-1280 ridussero progressivamente la loro importanza.
Quando Paolo Malatesti accettò l’incarico di Capitano del Popolo avrebbe dovuto svolgere il ruolo di giudice e di conservatore della pace, ma l’istituzione del Priorato delle Arti ne limitò il potere annullandogli alcune sentenze, inoltre in seguito alla battaglia di Castiglion della Pescaia contro Pisa, rimase ferito a un braccio quindi rassegnò le dimissioni e se ne tornò a Rimini a farsi curare dagli ottimi medici della famiglia Malatesti.
Gennaio 1276  Mastin Vecchio convoca tutti i suoi figli, per intervento di Berlingerio degli Amorosi procuratore di Rimini fu indetto un incontro per rappacificare i Malatesti guelfi con i Montefeltro ghibellini, sotto la mediazione dell’arcivescovo di Ravenna Bonifacio.
Anche Paolo partecipa.
1277 Francesca partorisce il suo figlio primogenito Francesco che morirà di li a poco. Questo dolore strazierà il suo animo al punto da farla ammalare e deperire. Il piccolo Francesco fu sepolto nella chiesa di San Francesco dove è ancora oggi.
1278 nuovamente Mastin vecchio convoca i figli e Paolo tornato a Rimini incontra Francesca distrutta e sofferente dal dolore che leggeva un libro: ”Lancelot in prose” e in quel momento seppe di essere perduto per sempre e la baciò. Così come racconta Dante: ”quali colombe dal desio chiamate con l’ali alzate e ferme al dolce nido”.
1279 riprendono gli intrighi per destabilizzare i Montefeltro. I Malatesti giurano fedeltà al papa Nicolò III e questo avrebbe permesso loro di consolidare la loro forza nel forlivese. Ghiaggiolo doveva giurare fedeltà al Malatesta Mastin Vecchio per avere la sicurezza di essere difeso e protetto. Giangiotto e Francesca lasciano Rimini per trasferirsi a Pesaro dove di li a poco Giovanni sarebbe diventato podestà. Francesca è di nuovo incinta e questa volta darà alla luce una bambina che chiamerà Concordia come la amata mamma di Giovanni.
A Pesaro si riuniscono ancora una volta i tre fratelli, Malatestino, Paolo, Giovanni.
Malatestino “quel traditor che vede pur con l’uno” era un ottimo osservatore, scaltro politico, soldato, curioso. Perderà un occhio nel 1283 nello scontro coi Pisani a Castiglion delle Pescaie dove era andato a combattere al fianco del fratello Paolo.  Gina Fasoli (1905-1992) studiosa di storia medioevale si interrogò sul perché mai Dante detestasse così tanto i Malatesti concludendo che nel 1301 Malatestino era entrato a Firenze con Carlo di Valois, fratello di Filippo il Bello re di Francia, chiamato da Bonifacio VIII per rovesciare il governo dei Guelfi bianchi e mettere in signoria i Guelfi neri. Dante che era un Guelfo bianco era a Roma e fu condannato in contumacia all’esilio.
1282 Francesca e Giovanni rientrano a Rimini proprio mentre Paolo sta per diventare Capitano del Popolo a Firenze.
Sembra che Giovanni fosse dispiaciuto di non essere stato scelto lui a ricoprire quella carica, se non altro per tutto l’impegno profuso negli anni a combattere per il padre contro i Montefeltro.
Paolo parte per Firenze che lo aveva affascinato con la sua bellezza, ma i fiorentini non lo vogliono e istituiscono la carica del Difensore delle Arti che ha avocato a se numerosi incarichi spettanti al Capitano del Popolo. La goccia che fece traboccare il vaso fu la condanna a morte di Bonaccorso degli Alisei reo di avere protestato contro la ingerenza dei priori sulla Costituzione del cardinale Latino Malabranca che regolamentava la pacifica convivenza di Guelfi e ghibellini.
1283 i fratelli Malatesti sono di nuovo a Rimini mentre Giovanni riparte per andare a combattere in Montefeltro.
1285 Malatestino  rimase menomato dalla ferita al volto e trascorse un lungo periodo di convalescenza a Rimini conoscendo momenti di grande scoramento. Sembra che in questo frangente cominciasse ad osservare Francesca e Paolo e sembra accorgersi del loro amore. A questo punto decise di denunciarli al fratello Giovanni. E Giovanni detto Gianciotto si vendicò.
Corse nella stanza di Francesca, la porta era chiusa, lui urlò di aprire, lei impaurita ubbidì mentre Paolo si calava dalla finestra rimanendo malauguratamente agganciato ad un chiodo, per cui non riuscì a fuggire. In quel mentre entrò Gianciotto lo vide e corse verso di lui con la spada sguainata pronta a colpirlo mentre Francesca si parò con il suo corpo per proteggerlo, ma la spada con un solo fendente li trafisse entrambi.
Mastin Vecchio informò Guido da Polenta dell’accaduto, la loro alleanza non andava intaccata, quello che era successo doveva essere insabbiato dimenticato se non volevano che i loro nemici si avvalessero di un vantaggio. Non avrebbero permesso a nessuno di raccontare o scrivere della vicenda, avrebbero tacitato le voci. Giovanni aveva rivendicato un suo diritto punendo l’infedeltà della moglie con la morte. Lui non l’avrebbe condannato per l’uccisione del fratello Paolo e Guido non avrebbe chiesto vendetta per la perdita della figlia. Malatesta avrebbe procurato in tutta fretta una nuova moglie a Giovanni e la bambina Concordia sarebbe entrata in convento. Quella brutta faccenda doveva essere cancellata dalla storia per sempre.
Dante aveva conosciuto a Firenze Paolo il Bello, il Capitano del Popolo, grazie a Cavalcanti e ne aveva approfondito la conoscenza, era un uomo piacevole, colto, intelligente.
Giovanni sposò in tutta fretta Ginevra detta Zambrasina degli Zambrasi figlia di Tebaldello di Faenza, colui che “aprì Faenza quando si dormia per darla ai Geremei di Bologna” (InfernoXXXII,122) ebbero cinque figli: Malatestino, Guido, Ramberto, Margherita, Rengarda.  Zambrasina fu sepolta a Rimini nella chiesa di San Francesco nell’arca vicino a Francesco il primo figlio morto di Gianciotto e Francesca.

© Imelde Corelli Grappadelli, March 2022

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